Venerati Fratelli e carissimi Figli, salute e Apostolica Benedizione!
I
EREDITA'
1. Al termine del secondo Millennio
IL REDENTORE DELL'UOMO,
Gesù Cristo, è centro del cosmo e della storia. A Lui si rivolgono
il mio pensiero ed il mio cuore in questa ora solenne, che la Chiesa e l'intera
famiglia dell'umanità contemporanea stanno vivendo. Infatti, questo tempo,
nel quale Dio per un suo arcano disegno, dopo il prediletto Predecessore Giovanni
Paolo I, mi ha affidato il servizio universale collegato con la Cattedra di
San Pietro a Roma, è già molto vicino all'anno Duemila. E' difficile
dire, in questo momento, che cosa quell'anno segnerà sul quadrante della
storia umana, e come esso sarà per i singoli popoli, nazioni, paesi e
continenti, benché sin d'ora si tenti di prevedere taluni eventi. Per
la Chiesa, per il Popolo di Dio, che si è esteso - sia pure in modo diseguale
- fino ai più lontani confini della terra, quell'anno sarà l'anno
di un gran Giubileo. Ci stiamo ormai avvicinando a tale data che - pur rispettando
tutte le correzioni dovute all'esattezza cronologica - ci ricorderà e
in modo particolare rinnoverà la consapevolezza della verità-chiave
della fede, espressa da San Giovanni agli inizi del suo Vangelo: "Il Verbo
si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi"(1), e altrove: "Dio
infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché
chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna"(2).
Siamo anche noi, in certo modo, nel tempo di un nuovo Avvento, ch'è tempo
di attesa. "Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte
e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni,
ha parlato a noi per mezzo del Figlio..."(3), per mezzo del Figlio-Verbo,
che si è fatto uomo ed è nato dalla Vergine Maria. In questo atto
redentivo la storia dell'uomo ha raggiunto nel disegno d'amore di Dio il suo
vertice. Dio è entrato nella storia dell'umanità e, come uomo,
è divenuto suo "soggetto", uno dei miliardi e, in pari tempo,
Unico! Attraverso l'Incarnazione Dio ha dato alla vita umana quella dimensione
che intendeva dare all'uomo sin dal suo primo inizio, e l'ha data in maniera
definitiva - nel modo peculiare a Lui solo, secondo il suo eterno amore e la
sua misericordia, con tutta la divina libertà - ed insieme con quella
munificenza che, di fronte al peccato originale ed a tutta la storia dei peccati
dell'umanità, di fronte agli errori dell'intelletto, della volontà
e del cuore umano, ci permette di ripetere con stupore le parole della sacra
Liturgia: "O felice colpa, che meritò di avere un tanto nobile e
grande Redentore!"(4).
2. Prime parole del nuovo Pontificato
A Cristo Redentore ho elevato
i miei sentimenti e pensieri il 16 ottobre dello scorso anno, allorché,
dopo l'elezione canonica, fu a me rivolta la domanda: "Accetti?".
Risposi allora: "Obbedendo nella fede a Cristo, mio Signore, confidando
nella Madre di Cristo e della Chiesa, nonostante le così grandi difficoltà,
io accetto". Quella mia risposta voglio oggi render nota pubblicamente
a tutti, senza alcuna eccezione, manifestando così che alla prima e fondamentale
verità dell'Incarnazione, già ricordata, è legato il ministero
che, con l'accettazione dell'elezione a Vescovo di Roma ed a Successore dell'apostolo
Pietro, è divenuto specifico mio dovere nella stessa sua Cattedra.
Scelsi gli stessi nomi, che aveva scelto il mio amatissimo Predecessore Giovanni
Paolo I. Difatti, già il 26 agosto 1978, quando egli dichiarò
al Sacro Collegio di volersi chiamare Giovanni Paolo - un binomio di questo
genere era senza precedenti nella storia del Papato - ravvisai in esso un chiaro
auspicio della grazia sul nuovo pontificato. Dato che quel pontificato è
durato appena 33 giorni, spetta a me non soltanto di continuarlo, ma, in certo
modo, di riprenderlo dallo stesso punto di partenza. Questo precisamente è
confermato dalla scelta, da me fatta, di quei due nomi. Scegliendoli, dopo l'esempio
del venerato mio Predecessore, desidero come lui esprimere il mio amore per
la singolare eredità lasciata alla Chiesa dai Pontefici Giovanni XXIII
e Paolo VI, ed insieme la personale mia disponibilità a svilupparla con
l'aiuto di Dio.
Attraverso questi due nomi e due pontificati mi riallaccio a tutta la tradizione
di questa Sede Apostolica, con tutti i Predecessori nell'arco del ventesimo
secolo e dei secoli precedenti, collegandomi via via, secondo le diverse età
fino alle più remote, a quella linea della missione e del ministero,
che conferisce alla Sede di Pietro un posto del tutto particolare nella Chiesa.
Giovanni XXIII e Paolo VI costituiscono una tappa, alla quale desidero riferirmi
direttamente come a soglia, dalla quale intendo, in qualche modo insieme con
Giovanni Paolo I, proseguire verso l'avvenire, lasciandomi guidare dalla fiducia
illimitata e dall'obbedienza allo Spirito, che Cristo ha promesso ed inviato
alla sua Chiesa. Egli diceva, infatti, agli Apostoli alla vigilia della sua
passione: "E' bene per voi che io me ne vada, perché, se non me
ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma, quando me ne sarò
andato, ve lo manderò"(5). "Quando verrà il Consolatore,
che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede
dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza,
perché siete stati con me fin dal principio"(6). "Quando però
verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità
tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà
tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future"(7).
3. Fiducia nello Spirito di Verità e di Amore
Affidandomi pienamente
allo Spirito di verità, entro, dunque, nella ricca eredità dei
recenti pontificati. Questa eredità è fortemente radicata nella
coscienza della Chiesa in modo del tutto nuovo, non mai prima conosciuto, grazie
al Concilio Vaticano II, convocato e inaugurato da Giovanni XXIII e, in seguito,
felicemente concluso e con perseveranza attuato da Paolo VI, la cui attività
ho potuto io stesso osservare da vicino. Fui sempre stupito dalla sua profonda
saggezza e dal suo coraggio, come anche dalla sua costanza e pazienza nel difficile
periodo postconciliare del suo pontificato. Come timoniere della Chiesa, barca
di Pietro, egli sapeva conservare una tranquillità ed un equilibrio provvidenziali
anche nei momenti più critici, quando sembrava che essa fosse scossa
dal di dentro, sempre mantenendo un'incrollabile speranza nella sua compattezza.
Ciò, infatti, che lo Spirito disse alla Chiesa mediante il Concilio del
nostro tempo, ciò che in questa Chiesa dice a tutte le Chiese(8) non
può - nonostante inquietudini momentanee - servire a nient'altro che
ad una ancor più matura compattezza di tutto il Popolo di Dio, consapevole
della sua missione salvifica.
Proprio di questa coscienza contemporanea della Chiesa, Paolo VI fece il primo
tema della sua fondamentale Enciclica, che inizia con le parole Ecclesiam Suam,
ed a questa Enciclica sia a me lecito, innanzitutto, di far riferimento e collegarmi
in questo primo e, per così dire, inaugurale documento del presente pontificato.
Illuminata e sorretta dallo Spirito Santo, la Chiesa ha una coscienza sempre
più approfondita sia riguardo al suo ministero divino, sia riguardo alla
sua missione umana, sia finalmente riguardo alle stesse sue debolezze umane:
ed è proprio questa coscienza che è e deve rimanere la prima sorgente
dell'amore di questa Chiesa, così come l'amore, da parte sua, contribuisce
a consolidare e ad approfondire la coscienza. Paolo VI ci ha lasciato la testimonianza
di una tale coscienza, estremamente acuta, della Chiesa. Attraverso le molteplici
e spesso sofferte componenti del suo pontificato, egli ci ha insegnato l'intrepido
amore verso la Chiesa, la quale - come afferma il Concilio - è "sacramento,
o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto
il genere umano"(9).
4. Riferimento alla prima Enciclica di Paolo VI
Proprio per tale ragione,
la coscienza della Chiesa deve esser congiunta con un'apertura universale, affinché
tutti possano trovare in essa "le imperscrutabili ricchezze di Cristo"(10),
di cui parla l'Apostolo delle genti. Tale apertura, organicamente unita con
la coscienza della propria natura, con la certezza della propria verità,
di cui disse Cristo: "La mia parola non è mia, ma del Padre che
mi ha mandato"(11), determina il dinamismo apostolico, cioè missionario,
della Chiesa, la quale professa e proclama integralmente tutta quanta la verità
trasmessa da Cristo.
Essa deve, in pari tempo, condurre quel dialogo che Paolo VI nella sua Enciclica
Ecclesiam Suam chiamò "dialogo della salvezza", differenziando
con precisione i singoli cerchi, nell'àmbito dei quali esso dovrebbe
esser condotto(12). Mentre oggi mi riferisco a questo documento programmatico
del pontificato di Paolo VI, non cesso di ringraziare Dio, perché questo
mio grande Predecessore e insieme vero padre, ha saputo - nonostante le diverse
debolezze interne, di cui la Chiesa nel periodo postconciliare ha sofferto -
manifestarne "ad extra", "al di fuori", l'autentico volto.
In tal modo, anche gran parte della famiglia umana, nei diversi àmbiti
della sua molteplice esistenza, è diventata - secondo il mio parere -
più cosciente di come sia ad essa veramente necessaria la Chiesa di Cristo,
la sua missione e il suo servizio. Questa coscienza si è talvolta dimostrata
più forte dei diversi atteggiamenti critici, che attaccavano "ab
intra", "dal di dentro", la Chiesa, le sue istituzioni e strutture,
gli uomini della Chiesa e la loro attività. Tale crescente critica ha
avuto senz'altro diverse cause, e siamo certi, d'altra parte, che essa non è
stata sempre priva di un vero amore alla Chiesa. Indubbiamente, si è
manifestata in essa, fra l'altro, la tendenza a superare il cosiddetto trionfalismo,
di cui spesso si discuteva durante il Concilio. Se è cosa giusta, però,
che la Chiesa, seguendo l'esempio del suo Maestro che era "umile di cuore"(13),
sia fondata anch'essa sull'umiltà, che abbia il senso critico rispetto
a tutto ciò che costituisce il suo carattere e la sua attività
umana, che sia sempre molto esigente con se stessa, parimenti anche lo spirito
critico deve avere i suoi giusti limiti. In caso contrario, esso cessa di esser
costruttivo, non rivela la verità, l'amore e la gratitudine per la grazia,
di cui principalmente e pienamente diventiamo partecipi proprio nella Chiesa
e mediante la Chiesa. Inoltre, esso non esprime l'atteggiamento di servizio,
ma piuttosto la volontà di dirigere l'opinione altrui secondo la propria
opinione, alle volte divulgata in modo troppo sconsiderato.
Si deve gratitudine a Paolo VI perché, rispettando ogni particella di
verità contenuta nelle varie opinioni umane, ha conservato in pari tempo
il provvidenziale equilibrio del timoniere della Barca(14). La Chiesa che, attraverso
Giovanni Paolo I e quasi subito dopo di lui ho avuto affidata, non è
certamente scevra da diffìcoltà e da tensioni interne. Nello stesso
tempo, però, essa è interiormente più premunita contro
gli eccessi dell'autocriticismo: si potrebbe dire che è più critica
di fronte alle diverse sconsiderate critiche, è più resistente
rispetto alle varie "novità", più matura nello spirito
di discernimento, più idonea ad estrarre dal suo perenne tesoro "cose
nuove e cose antiche"(15), più centrata sul proprio mistero, e,
grazie a tutto ciò, più disponibile per la missione della salvezza
di tutti: "Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati ed arrivino alla
conoscenza della verità"(16).
5. Collegialità e apostolato
Questa Chiesa è
- contro tutte le apparenze - più unita nella comunione di servizio e
nella coscienza dell'apostolato. Tale unione scaturisce da quel principio di
collegialità, ricordato dal Concilio Vaticano II, che Cristo stesso innestò
nel collegio apostolico dei Dodici con Pietro a capo, e che rinnova continuamente
nel collegio dei Vescovi, il quale sempre più cresce su tutta la terra,
rimanendo unito col Successore di San Pietro e sotto la sua guida. Il Concilio
non ha soltanto ricordato questo principio di collegialità dei Vescovi,
ma lo ha immensamente vivificato, fra l'altro auspicando l'istituzione di un
Organo permanente che Paolo VI stabilì costituendo il Sinodo dei Vescovi,
la cui attività non solo diede una nuova dimensione al suo pontificato,
ma, in seguito, si è chiaramente riflessa, fin dai primi giorni, nel
pontificato di Giovanni Paolo I ed in quello del suo indegno Successore.
Il principio di collegialità si è dimostrato particolarmente attuale
nel difficile periodo postconciliare, quando la comune ed unanime posizione
del collegio dei Vescovi - che soprattutto mediante il Sinodo ha manifestato
la sua unione col Successore di Pietro - contribuiva a dissipare i dubbi e indicava
parimenti le giuste vie del rinnovamento della Chiesa, nella sua dimensione
universale. Dal Sinodo, infatti, è scaturito fra l'altro quell'impulso
essenziale all'evangelizzazione che ha trovato la sua espressione nell'Esortazione
Apostolica Evangelii Nuntiandi(17), con tanta gioia accolta come programma del
rinnovamento di carattere apostolico e insieme pastorale. La stessa linea è
stata seguita anche nei lavori dell'ultima sessione ordinaria del Sinodo dei
Vescovi, la quale ebbe luogo circa un anno prima della scomparsa del Pontefice
Paolo VI, e fu dedicata - com'è noto - alla catechesi. I risultati di
quei lavori richiedono ancora una sistemazione e una enunciazione da parte della
Sede Apostolica.
Poiché stiamo trattando dell'evidente sviluppo delle forme in cui si
esprime la collegialità episcopale, occorre almeno ricordare il processo
di consolidamento delle Conferenze Episcopali nazionali in tutta la Chiesa e
di altre strutture collegiali a carattere internazionale o continentale. Riferendoci
poi alla tradizione secolare della Chiesa, conviene sottolineare l'attività
dei diversi Sinodi locali. Fu, infatti, idea del Concilio, coerentemente attuata
da Paolo VI, che le strutture di questo genere, da secoli sperimentate dalla
Chiesa, come anche le altre forme della collaborazione collegiale dei Vescovi,
ad esempio la metropolia, per non parlare già di ogni singola diocesi,
pulsassero in piena consapevolezza della propria identità ed insieme
della propria originalità, nell'unità universale della Chiesa.
Lo stesso spirito di collaborazione e di corresponsabilità si sta diffondendo
anche tra i sacerdoti, e ciò viene confermato dai numerosi Consigli Presbiterali,
che son sorti dopo il Concilio. Questo spirito si è esteso anche tra
i laici, confermando non soltanto le organizzazioni dell'apostolato laicale
già esistenti, ma creandone delle nuove, aventi spesso un profilo diverso
ed una dinamica eccezionale. Inoltre, i laici, consapevoli della loro responsabilità
dinanzi alla Chiesa, si sono impegnati volentieri nella collaborazione con i
Pastori, con i rappresentanti degli Istituti di vita consacrata, nell'àmbito
dei Sinodi diocesani o dei Consigli pastorali nelle parrocchie e nelle diocesi.
E' per me necessario avere in mente tutto questo agli inizi del mio pontificato,
per ringraziare Dio, per esprimere un vivo incoraggiamento a tutti i Fratelli
e Sorelle, e per ricordare, inoltre, con viva gratitudine l'opera del Concilio
Vaticano II ed i miei grandi Predecessori, che hanno dato avvio a questa nuova
"ondata" della vita della Chiesa, moto ben più potente dei
sintomi di dubbio, di crollo e di crisi.
6. Via all'unione dei cristiani
E che cosa dire di tutte
le iniziative scaturite dal nuovo orientamento ecumenico? L'indimenticabile
Papa Giovanni XXIII, con evangelica chiarezza, impostò il problema dell'unione
dei cristiani, come semplice conseguenza della volontà dello stesso Gesù
Cristo, nostro Maestro, affermata più volte ed espressa, in modo particolare,
nella preghiera del Cenacolo, alla vigilia della sua morte: "Prego...,
Padre..., perché tutti siano una cosa sola"(18). Il Concilio Vaticano
II rispose a questa esigenza in forma concisa col Decreto sull'ecumenismo. Il
Papa Paolo VI, avvalendosi dell'attività del Segretariato per l'unione
dei Cristiani, iniziò i primi difficili passi sulla via del conseguimento
di tale unione. Siamo andati lontano su questa strada? Senza voler dare una
risposta particolareggiata, possiamo dire che abbiamo fatto dei veri ed importanti
progressi. Ed una cosa è certa: abbiamo lavorato con perseveranza e coerenza,
ed insieme con noi si sono impegnati anche i rappresentanti di altre Chiese
e di altre Comunità cristiane, e di questo siamo loro sinceramente obbligati.
E certo, inoltre, che, nella presente situazione storica della cristianità
e del mondo, non appare altra possibilità di adempiere la missione universale
della Chiesa, per quanto riguarda i problemi ecumenici, che quella di cercare
lealmente, con perseveranza, con umiltà e anche con coraggio, le vie
di avvicinamento e di unione così come ce ne ha dato il personale esempio
Papa Paolo VI. Dobbiamo, pertanto, ricercare l'unione senza scoraggiarci di
fronte alle difficoltà, che possono presentarsi o accumularsi lungo tale
via; altrimenti, non saremmo fedeli alla parola di Cristo, non realizzeremmo
il suo testamento. E lecito correre questo rischio?
Vi sono persone che, trovandosi di fronte alle difficoltà, oppure giudicando
negativi i risultati degli iniziali lavori ecumenici, avrebbero voluto indietreggiare.
Alcuni esprimono perfino l'opinione che questi sforzi nuocciano alla causa del
Vangelo, conducano ad un'ulteriore rottura della Chiesa, provochino confusione
di idee nelle questioni della fede e della morale, approdino ad uno specifico
indifferentismo. Sarà forse bene che i portavoce di tali opinioni esprimano
i loro timori; tuttavia, anche a questo riguardo, bisogna mantenere i giusti
limiti. E ovvio che questa nuova tappa della vita della Chiesa esiga da noi
una fede particolarmente cosciente, approfondita e responsabile. La vera attività
ecumenica significa apertura, avvicinamento, disponibilità al dialogo,
comune ricerca della verità nel pieno senso evangelico e cristiano; ma
essa non significa assolutamente né può significare rinunciare
o recare in qualsiasi modo pregiudizio ai tesori della verità divina,
costantemente confessata ed insegnata dalla Chiesa. A tutti coloro che, per
qualsiasi motivo, vorrebbero dissuadere la Chiesa dalla ricerca dell'unità
universale dei cristiani, bisogna ripetere ancora una volta: E lecito a noi
il non farlo? Possiamo - nonostante tutta la debolezza umana e tutte le deficienze
accumulatesi nei secoli passati - non aver fiducia nella grazia di Nostro Signore,
quale si è rivelata, nell'ultimo tempo, mediante la parola dello Spirito
Santo, che abbiamo sentito durante il Concilio? Facendo così, negheremmo
la verità che concerne noi stessi e che l'Apostolo ha espresso in modo
tanto eloquente: "Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia
in me non è stata vana"(19).
Pur se in altro modo e con le dovute differenze, bisogna applicare ciò
che è stato detto all'attività che tende all'avvicinamento con
i rappresentanti delle religioni non cristiane, e che si esprime mediante il
dialogo, i contatti, la preghiera comunitaria, la ricerca dei tesori della spiritualità
umana, i quali - come ben sappiamo - non mancano neppure ai membri di queste
religioni. Non avviene forse talvolta che la ferma credenza dei seguaci delle
religioni non cristiane - effetto anche essa dello Spirito di verità,
operante oltre i confini visibili del Corpo Mistico - possa quasi confondere
i cristiani, spesso così disposti a dubitare, invece, nelle verità
rivelate da Dio e annunziate dalla Chiesa, così propensi al rilassamento
dei princìpi della morale e ad aprire la strada al permissivismo etico?
E nobile esser predisposti a comprendere ciascun uomo, ad analizzare ogni sistema,
a dare ragione a ciò che è giusto; ma questo non significa assolutamente
perdere la certezza della propria fede(20), ovvero indebolire i princìpi
della morale, la cui mancanza si farà risentire ben presto nella vita
di intere società, determinando, fra l'altro, deplorevoli conseguenze.
II
IL MISTERO DELLA REDENZIONE
7. Nel Mistero di Cristo
Se le vie, sulle quali
il Concilio del nostro secolo ha avviato la Chiesa, vie che ci ha indicato nella
sua prima Enciclica il compianto Papa Paolo VI, rimarranno a lungo esattamente
quelle che noi tutti dobbiamo seguire, al tempo stesso in questa nuova tappa
possiamo giustamente chiederci: Come? In che modo occorre proseguire? Che cosa
occorre fare, affinché questo nuovo Avvento della Chiesa, congiunto con
l'ormai prossima fine del secondo Millennio, ci avvicini a Colui che la Sacra
Scrittura chiama: "Padre per sempre", Pater futuri saeculi?(21) Questa
è la fondamentale domanda che il nuovo Pontefice deve porsi, quando,
in ispirito d'obbedienza di fede, accetta la chiamata secondo il comando da
Cristo più volte rivolto a Pietro: "Pasci i miei agnelli"(22),
che vuol dire: Sii pastore del mio ovile; e poi "... e tu, una volta ravveduto,
conferma i tuoi fratelli"(23).
E proprio qui, carissimi Fratelli, Figli e Figlie, che s'impone una risposta
fondamentale ed essenziale, e cioè: l'unico orientamento dello spirito,
l'unico indirizzo dell'intelletto, della volontà e del cuore è
per noi questo: verso Cristo, Redentore dell'uomo; verso Cristo, Redentore del
mondo. A Lui vogliamo guardare, perché solo in Lui, Figlio di Dio, c'è
salvezza, rinnovando l'affermazione di Pietro: "Signore, a chi andremo?
Tu hai parole di vita eterna"(24).
Attraverso la coscienza della Chiesa, tanto sviluppata dal Concilio, attraverso
tutti i gradi di questa coscienza, attraverso tutti i campi di attività
in cui la Chiesa si esprime, si ritrova e si conferma, dobbiamo costantemente
tendere a Colui "che è il capo"(25), a Colui "in virtù
del quale esistono tutte le cose e noi siamo per lui"(26), a Colui il quale
è insieme "la via, la verità"(27) e "la risurrezione
e la vita"(28), a Colui vedendo il quale vediamo il Padre(29), a Colui
che doveva partirsene da noi(30) - s'intende per la morte sulla Croce e poi
per l'Ascensione al Cielo - affinché il Consolatore venisse a noi e continuamente
venga come Spirito di verità(31). In Lui sono "tutti i tesori della
sapienza e della scienza"(32), e la Chiesa è il suo Corpo(33). La
Chiesa è "in Cristo come un sacramento, o segno e strumento dell'intima
unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano"(34), e di
ciò è Lui la sorgente! Lui stesso! Lui, il Redentore !
La Chiesa non cessa di ascoltare le sue parole, le rilegge di continuo, ricostruisce
con la massima devozione ogni particolare della sua vita. Queste parole sono
ascoltate anche dai non cristiani. La vita di Cristo parla, in pari tempo, a
tanti uomini che non sono ancora in grado di ripetere con Pietro: "Tu sei
il Cristo, il Figlio del Dio vivente"(35). Egli, Figlio del Dio vivente,
parla agli uomini anche come Uomo: è la sua vita stessa che parla, la
sua umanità, la sua fedeltà alla verità, il suo amore che
abbraccia tutti. Parla, inoltre, la sua morte in Croce, cioè l'imperscrutabile
profondità della sua sofferenza e dell'abbandono. La Chiesa non cessa
mai di riviverne la morte in Croce e la Risurrezione, che costituiscono il contenuto
della sua vita quotidiana. Difatti, è per mandato di Cristo stesso, suo
Maestro, che la Chiesa celebra incessantemente l'Eucaristia, trovando in essa
"la sorgente della vita e della santità"(36), il segno efficace
della grazia e della riconciliazione con Dio, il pegno della vita eterna. La
Chiesa vive il suo mistero, vi attinge senza stancarsi mai e ricerca continuamente
le vie per avvicinare questo mistero del suo Maestro e Signore al genere umano:
ai popoli, alle nazioni, alle generazioni che si susseguono, ad ogni uomo in
particolare, come se ripetesse sempre secondo l'esempio dell'Apostolo: "Io
ritenni, infatti, di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo,
e questi crocifisso"(37). La Chiesa rimane nella sfera del mistero della
Redenzione, che è appunto diventato il principio fondamentale della sua
vita e della sua missione.
8. Redenzione: rinnovata creazione
Redentore del mondo! In
lui si è rivelata in modo nuovo e più mirabile la fondamentale
verità sulla creazione, che il Libro della Genesi attesta quando ripete
più volte: "Dio vide che era cosa buona"(38) Il bene ha la
sua sorgente nella Sapienza e nell'Amore. In Gesù Cristo il mondo visibile,
creato da Dio per l'uomo(39) - quel mondo che, essendovi entrato il peccato,
"è stato sottomesso alla caducità"(40) - riacquista
nuovamente il vincolo originario con la stessa sorgente divina della Sapienza
e dell'Amore. Infatti, "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito"(41). Come nell'uomo-Adamo questo vincolo è stato infranto,
così nell'uomo-Cristo esso è stato di nuovo riallacciato(42).
Non ci convincono forse, noi uomini del ventesimo secolo, le parole dell'Apostolo
delle genti, pronunciate con una travolgente eloquenza, circa la "creazione
(che) geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto"(43) ed "attende
con impazienza la rivelazione dei figli di Dio"(44), circa la creazione
che "è stata sottomessa alla caducità"? L'immenso progresso,
non mai prima conosciuto, che si è verificato, particolarmente nel corso
del nostro secolo, nel campo del dominio sul mondo da parte dell'uomo, non rivela
forse esso stesso, e per di più in grado mai prima raggiunto, quella
multiforme sottomissione "alla caducità"? Basta solo qui ricordare
certi fenomeni, quali la minaccia di inquinamento dell'ambiente naturale nei
luoghi di rapida industrializzazione, oppure i conflitti armati che scoppiano
e si ripetono continuamente, oppure le prospettive di autodistruzione mediante
l'uso delle armi atomiche, all'idrogeno, al neutrone e simili, la mancanza di
rispetto per la vita dei non nati. Il mondo della nuova epoca, il mondo dei
voli cosmici, il mondo delle conquiste scientifiche e tecniche, non mai prima
raggiunte, non è nello stesso tempo il mondo che "geme e soffre"(45)
ed "attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio"?(46)
Il Concilio Vaticano II, nella sua penetrante analisi "del mondo contemporaneo",
perveniva a quel punto che è il più importante del mondo visibile,
l'uomo, scendendo - come Cristo - nel profondo delle coscienze umane, toccando
il mistero interiore dell'uomo, che nel linguaggio biblico ( ed anche non biblico)
si esprime con la parola "cuore". Cristo, Redentore del mondo, è
Colui che è penetrato, in modo unico e irrepetibile, nel mistero dell'uomo
ed è entrato nel suo "cuore". Giustamente, quindi, il Concilio
Vaticano II insegna: "In realtà, solamente nel mistero del Verbo
incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo,
era figura di quello futuro (Rm 5, 14), e cioè di Cristo Signore. Cristo,
che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo
Amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima
vocazione". E poi ancora: "Egli è l'immagine dell'invisibile
Iddio (Col 1, 15). Egli è l'uomo perfetto, che ha restituito ai figli
di Adamo la somiglianza con Dio, già resa deforme fin dal primo peccato.
Poiché in Lui la natura umana è stata assunta, senza per questo
venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche a nostro
beneficio innalzata a una dignità sublime. Con la sua incarnazione, infatti,
il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato
con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo,
ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto
veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato"(47).
Egli, il Redentore dell'uomo!
9. Dimensione divina del mistero della Redenzione
Riflettendo nuovamente
su questo stupendo testo del Magistero conciliare, non dimentichiamo, neanche
per un momento, che Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, è diventato
la nostra riconciliazione presso il Padre(48). Proprio Lui, solo Lui ha soddisfatto
all'eterno amore del Padre, a quella paternità che sin dal principio
si è espressa nella creazione del mondo, nella donazione all'uomo di
tutta la ricchezza del creato, nel farlo "poco meno degli angeli"(49),
in quanto creato "ad immagine ed a somiglianza di Dio"(50); e, egualmente,
ha soddisfatto a quella paternità di Dio e a quell'amore, in un certo
modo respinto dall'uomo con la rottura della prima Alleanza(51) e di quelle
posteriori che Dio "molte volte ha offerto agli uomini"(52). La redenzione
del mondo - questo tremendo mistero dell'amore, in cui la creazione viene rinnovata(53)
- è, nella sua più profonda radice, la pienezza della giustizia
in un Cuore umano: nel Cuore del Figlio primogenito, perché essa possa
diventare giustizia dei cuori di molti uomini, i quali proprio nel Figlio primogenito
sono stati, fin dall'eternità, predestinati a divenire figli di Dio(54)
e chiamati alla grazia, chiamati all'amore. La croce sul Calvario, per mezzo
della quale Gesù Cristo - uomo, figlio di Maria Vergine, figlio putativo
di Giuseppe di Nazaret - "lascia" questo mondo, è al tempo
stesso una nuova manifestazione dell'eterna paternità di Dio, il quale
in Lui si avvicina di nuovo all'umanità, ad ogni uomo, donandogli il
tre volte santo "Spirito di verità"(55).
Con questa rivelazione del Padre ed effusione dello Spirito Santo, che stampano
un sigillo indelebile sul mistero della Redenzione, si spiega il senso della
croce e della morte di Cristo. Il Dio della creazione si rivela come Dio della
redenzione, come Dio "fedele a se stesso"(56), fedele al suo amore
verso l'uomo e verso il mondo, già rivelato nel giorno della creazione.
E il suo è amore che non indietreggia davanti a nulla di ciò che
in lui stesso esige la giustizia. E per questo il Figlio "che non aveva
conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore"(57).
Se "trattò da peccato" Colui che era assolutamente senza alcun
peccato, lo fece per rivelare l'amore che è sempre più grande
di tutto il creato, l'amore che è Lui stesso, perché "Dio
è amore"(58). E soprattutto l'amore è più grande del
peccato, della debolezza, della "caducità del creato"(59),
più forte della morte; è amore sempre pronto a sollevare e a perdonare,
sempre pronto ad andare incontro al figliol prodigo(60), sempre alla ricerca
della "rivelazione dei figli di Dio"(61), che sono chiamati alla gloria
futura(62). Questa rivelazione dell'amore viene anche definita misericordia(63),
e tale rivelazione dell'amore e della misericordia ha nella storia dell'uomo
una forma e un nome: si chiama Gesù Cristo.
10. Dimensione umana del mistero della Redenzione
L'uomo non può vivere
senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita
è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra
con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente.
E perciò appunto Cristo Redentore - come è stato già detto
- rivela pienamente l'uomo all'uomo stesso. Questa è - se così
è lecito esprimersi - la dimensione umana del mistero della Redenzione.
In questa dimensione l'uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore
propri della sua umanità. Nel mistero della Redenzione l'uomo diviene
nuovamente "espresso" e, in qualche modo, è nuovamente creato.
Egli è nuovamente creato! "Non c'è più giudeo né
greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più
uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù"(64).
L'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto secondo immediati,
parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio
essere - deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza
e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli
deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve "appropriarsi"
ed assimilare tutta la realtà dell'Incarnazione e della Redenzione per
ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli
produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia
di se stesso. Quale valore deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore
se "ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore"(65),
se "Dio ha dato il suo Figlio", affinché egli, l'uomo, "non
muoia, ma abbia la vita eterna"(66).
In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità
dell'uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo.
Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e forse
di più ancora, "nel mondo contemporaneo". Questo stupore, ed
insieme persuasione e certezza, che nella sua profonda radice è la certezza
della fede, ma che in modo nascosto e misterioso vivifica ogni aspetto dell'umanesimo
autentico, è strettamente collegato a Cristo. Esso determina anche il
suo posto, il suo - se così si può dire - particolare diritto
di cittadinanza nella storia dell'uomo e dell'umanità. La Chiesa, che
non cessa di contemplare l'insieme del mistero di Cristo, sa con tutta la certezza
della fede, che la Redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente
all'uomo la dignità ed il senso della sua esistenza nel mondo, senso
che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato. E perciò
la Redenzione si è compiuta nel mistero pasquale, che attraverso la croce
e la morte conduce alla risurrezione.
Il còmpito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare,
della nostra, è di dirigere lo sguardo dell'uomo, di indirizzare la coscienza
e l'esperienza di tutta l'umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare
tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della
Redenzione, che avviene in Cristo Gesù. Contemporaneamente, si tocca
anche la più profonda sfera dell'uomo, la sfera - intendiamo - dei cuori
umani, delle coscienze umane e delle vicende umane.
11 . Il mistero di Cristo alla base della missione della Chiesa e del Cristianesimo
Il Concilio Vaticano II
ha compiuto un lavoro immenso per formare quella piena ed universale coscienza
della Chiesa, di cui scriveva Papa Paolo VI nella sua prima Enciclica. Tale
coscienza - o piuttosto autocoscienza della Chiesa - si forma "nel dialogo",
il quale, prima di diventare colloquio, deve rivolgere la propria attenzione
verso "l'altro", cioè verso colui col quale vogliamo parlare.
Il Concilio ecumenico ha dato un impulso fondamentale per formare l'autocoscienza
della Chiesa, offrendoci, in modo tanto adeguato e competente, la visione dell'orbe
terrestre come di una "mappa" di varie religioni. Inoltre, esso ha
dimostrato come su questa mappa delle religioni del mondo si sovrapponga a strati
- prima non mai conosciuti e caratteristici del nostro tempo - il fenomeno dell'ateismo
nelle sue varie forme, a cominciare dall'ateismo programmato, organizzato e
strutturato in un sistema politico.
Quanto alla religione, si tratta, anzitutto, della religione come fenomeno universale,
unito alla storia dell'uomo fin dall'inizio; poi, delle varie religioni non
cristiane e, infine, dello stesso cristianesimo Il documento del Concilio dedicato
alle religioni non cristiane è, in particolare, pieno di profonda stima
per i grandi valori spirituali, anzi, per il primato di ciò che è
spirituale e trova nella vita dell'umanità la sua espressione nella religione
e, inoltre, nella moralità, con diretti riflessi su tutta la cultura.
Giustamente i Padri della Chiesa vedevano nelle diverse religioni quasi altrettanti
riflessi di un'unica verità come "germi del Verbo"(67), i quali
testimoniano che, quantunque per diverse strade, è rivolta tuttavia in
una unica direzione la più profonda aspirazione dello spirito umano,
quale si esprime nella ricerca di Dio ed insieme nella ricerca, mediante la
tensione verso Dio, della piena dimensione dell'umanità, ossia del pieno
senso della vita umana. Il Concilio ha dedicato una particolare attenzione alla
religione giudaica, ricordando il grande patrimonio spirituale, comune ai cristiani
e agli ebrei, ed ha espresso la sua stima verso i credenti dell'Islam, la cui
fede si riferisce anche ad Abramo(68).
Per l'apertura fatta dal Concilio Vaticano II, la Chiesa e tutti i cristiani
hanno potuto raggiungere una coscienza più completa del mistero di Cristo,
"mistero nascosto da secoli"(69) in Dio, per esser rivelato nel tempo:
nell'uomo Gesù Cristo, e per rivelarsi continuamente, in ogni tempo.
In Cristo e per Cristo, Dio si è rivelato pienamente all'umanità
e si è definitivamente avvicinato ad essa e, nello stesso tempo, in Cristo
e per Cristo, l'uomo ha acquistato piena coscienza della sua dignità,
della sua elevazione, del valore trascendente della propria umanità,
del senso della sua esistenza.
Occorre, quindi, che noi tutti - quanti siamo seguaci di Cristo - ci incontriamo
e ci uniamo intorno a Lui stesso. Questa unione, nei diversi settori della vita,
della tradizione, delle strutture e discipline delle singole Chiese o Comunità
ecclesiali, non può attuarsi senza un valido lavoro, che tenda alla reciproca
conoscenza ed alla rimozione degli ostacoli sulla strada di una perfetta unità.
Tuttavia, possiamo e dobbiamo già fin d'ora raggiungere e manifestare
al mondo la nostra unità: nell'annunciare il mistero di Cristo, nel rivelare
la dimensione divina e insieme umana della Redenzione, nel lottare con instancabile
perseveranza per la dignità che ogni uomo ha raggiunto e può raggiungere
continuamente in Cristo. E' questa la dignità della grazia dell'adozione
divina ed insieme la dignità della verità interiore dell'umanità,
la quale - se nella coscienza comune del mondo contemporaneo ha raggiunto un
rilievo così fondamentale - ancora di più risulta per noi alla
luce di quella realtà che è Lui: Gesù Cristo.
Gesù Cristo è stabile principio e centro permanente della missione,
che Dio stesso ha affidata all'uomo. A questa missione dobbiamo partecipare
tutti, in essa dobbiamo concentrare tutte le nostre forze, essendo più
che mai necessaria all'umanità del nostro tempo. E se tale missione sembra
incontrare nella nostra epoca opposizioni più grandi che in qualunque
altro tempo, tale circostanza dimostra pure che essa è nella nostra epoca
ancor più necessaria e - nonostante le opposizioni - è più
attesa che mai. Qui tocchiamo indirettamente quel mistero dell'economia divina,
che ha unito la salvezza e la grazia con la croce. Non invano Cristo disse che
"il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono"(70);
ed inoltre che "i figli di questo mondo (...) sono più scaltri dei
figli della luce"(71). Accettiamo volentieri questo rimprovero, per essere
come quei "violenti di Dio" che abbiamo tante volte visto nella storia
della Chiesa e che scorgiamo ancor oggi, per unirci consapevolmente nella grande
missione, e cioè: rivelare Cristo al mondo, aiutare ciascun uomo perché
ritrovi se stesso in Lui, aiutare le generazioni contemporanee dei nostri fratelli
e sorelle, popoli, nazioni, stati, umanità, paesi non ancora sviluppati
e paesi dell'opulenza, tutti insomma, a conoscere le "imperscrutabili ricchezze
di Cristo"(72), perché queste sono per ogni uomo e costituiscono
il bene di ciascuno.
12. Missione della Chiesa e libertà dell'uomo
In questa unione nella
missione, di cui decide soprattutto Cristo stesso, tutti i cristiani debbono
scoprire ciò che già li unisce, ancor prima che si realizzi la
loro piena comunione. Questa è l'unione apostolica e missionaria, missionaria
e apostolica. Grazie a questa unione possiamo insieme avvicinarci al magnifico
patrimonio dello spirito umano, che si è manifestato in tutte le religioni,
come dice la Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra Aetate(73). Grazie
ad essa, ci accostiamo in pari tempo a tutte le culture, a tutte le concezioni
ideologiche, a tutti gli uomini di buona volontà. Ci avviciniamo con
quella stima, rispetto e discernimento che, sin dai tempi degli Apostoli, contrassegnava
l'atteggiamento missionario e del missionario. Basta ricordare San Paolo e,
ad esempio, il suo discorso davanti all'Areopago di Atene(74). L'atteggiamento
missionario inizia sempre con un sentimento di profonda stima di fronte a ciò
che "c'è in ogni uomo"(75), per ciò che egli stesso,
nell'intimo del suo spirito, ha elaborato riguardo ai problemi più profondi
e più importanti; si tratta di rispetto per tutto ciò che in lui
ha operato lo Spirito, che "soffia dove vuole"(76). La missione non
è mai una distruzione, ma è una riassunzione di valori e una nuova
costruzione, anche se nella pratica non sempre vi è stata piena corrispondenza
a un ideale così elevato. E la conversione, che da essa deve prendere
inizio, sappiamo bene che è opera della grazia, nella quale l'uomo deve
pienamente ritrovare se stesso.
Perciò, la Chiesa del nostro tempo dà grande importanza a tutto
ciò che il Concilio Vaticano II ha esposto nella Dichiarazione sulla
Libertà Religiosa, sia nella prima che nella seconda parte del documento(77).
Sentiamo profondamente il carattere impegnativo della verità che Dio
ci ha rivelato. Avvertiamo, in particolare, il grande senso di responsabilità
per questa verità. La Chiesa, per istituzione di Cristo, ne è
custode e maestra, essendo appunto dotata di una singolare assistenza dello
Spirito Santo, perché possa fedelmente custodirla ed insegnarla nella
sua più esatta integrità(78). Adempiendo questa missione, guardiamo
Cristo stesso, Colui che è il primo evangelizzatore(79), e guardiamo
anche i suoi Apostoli, Martiri e Confessori. La Dichiarazione sulla Libertà
Religiosa ci manifesta, in modo convincente, come Cristo e, in seguito, i suoi
Apostoli, nell'annunciare la verità che non proviene dagli uomini, ma
da Dio ("la mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato"(80),
cioè del Padre), pur agendo con tutta la forza dello spirito, conservino
una profonda stima per l'uomo, per il suo intelletto, la sua volontà,
la sua coscienza e la sua libertà(81). In tal modo, la stessa dignità
della persona umana diventa contenuto di quell'annuncio, anche se privo di parole,
mediante il comportamento nei suoi riguardi. Tale comportamento sembra corrispondere
ai bisogni particolari dei nostri tempi. Siccome non in tutto quello che i vari
sistemi ed anche singoli uomini vedono e propagano come libertà è
la vera libertà dell'uomo, tanto più la Chiesa, in forza della
sua divina missione, diventa custode di questa libertà, la quale è
condizione e base della vera dignità della persona umana.
Gesù Cristo va incontro all'uomo di ogni epoca, anche della nostra epoca,
con le stesse parole: "Conoscerete la verità, e la verità
vi farà liberi"(82). Queste parole racchiudono una fondamentale
esigenza ed insieme un ammonimento: l'esigenza di un rapporto onesto nei riguardi
della verità, come condizione di un'autentica libertà; e l'ammonimento,
altresì, perché sia evitata qualsiasi libertà apparente,
ogni libertà superficiale e unilaterale, ogni libertà che non
penetri tutta la verità sull'uomo e sul mondo. Anche oggi, dopo duemila
anni, il Cristo appare a noi come Colui che porta all'uomo la libertà
basata sulla verità, come Colui che libera l'uomo da ciò che limita,
menoma e quasi spezza alle radici stesse, nell'anima dell'uomo, nel suo cuore,
nella sua coscienza, questa libertà. Quale stupenda conferma di ciò
hanno dato e non cessano di dare coloro che, grazie a Cristo e in Cristo, hanno
raggiunto la vera libertà e l'hanno manifestata perfino in condizioni
di costrizione esteriore!
E Gesù Cristo stesso, quando comparve prigioniero dinanzi al tribunale
di Pilato e fu da lui interrogato circa l'accusa fattagli dai rappresentanti
del Sinedrio, non rispose forse: "Per questo io sono nato e per questo
sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità"(83)?
Con queste parole pronunciate davanti al giudice, nel momento decisivo, era
come se confermasse, ancora una volta, la frase già detta in precedenza:
"Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi".
Nel corso di tanti secoli e di tante generazioni, cominciando dai tempi degli
Apostoli, non è forse Gesù Cristo stesso che tante volte è
comparso accanto ad uomini giudicati a causa della verità, e non è
andato forse alla morte con uomini condannati a causa della verità? Cessa
Egli forse di essere continuamente portavoce e avvocato dell'uomo, che vive
"in spirito e verità"(84)? Proprio come non cessa di esserlo
davanti al Padre, così lo è anche nei confronti della storia dell'uomo.
E la Chiesa, a sua volta, nonostante tutte le debolezze che fanno parte della
sua storia umana, non cessa di seguire Colui che ha detto: "E' giunto il
momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in
spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è
spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità"(85).
III
L'UOMO REDENTO E LA SUA SITUAZIONE NEL MONDO CONTEMPORANEO
13. Cristo si è unito ad ogni uomo
Quando, attraverso l'esperienza
della famiglia umana in continuo aumento a ritmo accelerato, penetriamo nel
mistero di Gesù Cristo, comprendiamo con maggiore chiarezza che, alla
base di tutte queste vie lungo le quali, conforme alla saggezza del Pontefice
Paolo VI(86), deve proseguire la Chiesa dei nostri tempi, c'è un'unica
via: è la via sperimentata da secoli, ed è, insieme, la via del
futuro. Cristo Signore ha indicato questa via, soprattutto quando - come insegna
il Concilio - "con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in
certo modo ad ogni uomo"(87). La Chiesa ravvisa, dunque, il suo còmpito
fondamentale nel far sì che una tale unione possa continuamente attuarsi
e rinnovarsi. La Chiesa desidera servire quest'unico fine: che ogni uomo possa
ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada
della vita, con la potenza di quella verità sull'uomo e sul mondo, contenuta
nel mistero dell'Incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell'amore
che da essa irradia. Sullo sfondo dei sempre crescenti processi nella storia,
che nella nostra epoca sembrano fruttificare in modo particolare nell'àmbito
di vari sistemi, concezioni ideologiche del mondo e regimi, Gesù Cristo
diventa, in certo modo, nuovamente presente, malgrado tutte le apparenti sue
assenze, malgrado tutte le limitazioni della presenza e dell'attività
istituzionale della Chiesa. Gesù Cristo diventa presente con la potenza
di quella verità e di quell'amore, che si sono espressi in Lui come pienezza
unica e irripetibile, benché la sua vita in terra sia stata breve ed
ancor più breve la sua attività pubblica.
Gesù Cristo è la via principale della Chiesa. Egli stesso è
la nostra via "alla casa del Padre"(88), ed è anche la via
a ciascun uomo. Su questa via che conduce da Cristo all'uomo, su questa via
sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo, la Chiesa non può esser fermata
da nessuno. Questa è l'esigenza del bene temporale e del bene eterno
dell'uomo. La Chiesa, per riguardo a Cristo ed in ragione di quel mistero che
costituisce la vita della Chiesa stessa, non può rimanere insensibile
a tutto ciò che serve al vero bene dell'uomo, così come non può
rimanere indifferente a ciò che lo minaccia. Il Concilio Vaticano II,
in diversi passi dei suoi documenti, ha espresso questa fondamentale sollecitudine
della Chiesa, affinché "la vita nel mondo " sia " più
conforme all'eminente dignità dell'uomo"(89) in tutti i suoi aspetti,
per renderla "sempre più umana"(90). Questa è la sollecitudine
di Cristo stesso, il buon Pastore di tutti gli uomini. In nome di tale sollecitudine
- come leggiamo nella Costituzione pastorale del Concilio - "la Chiesa
che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si
confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema
politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente
della persona umana"(91).
Qui, dunque, si tratta dell'uomo in tutta la sua verità, nella sua piena
dimensione. Non si tratta dell'uomo "astratto", ma reale, dell'uomo
"concreto", "storico". Si tratta di "ciascun"
uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione,
e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero.
Ogni uomo viene al mondo concepito nel seno materno, nascendo dalla madre, ed
è proprio a motivo del mistero della Redenzione che è affidato
alla sollecitudine della Chiesa. Tale sollecitudine riguarda l'uomo intero ed
è incentrata su di lui in modo del tutto particolare. L'oggetto di questa
premura è l'uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana,
in cui permane intatta l'immagine e la somiglianza con Dio stesso(92). Il Concilio
indica proprio questo, quando, parlando di tale somiglianza, ricorda che "l'uomo
in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa"(93).
L'uomo così com'è "voluto" da Dio, così come
è stato da Lui eternamente "scelto", chiamato, destinato alla
grazia e alla gloria: questo è proprio "ogni" uomo, l'uomo
"il più concreto", "il più reale"; questo
è l'uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe
in Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro
miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito
sotto il cuore della madre.
14. Tutte le vie della Chiesa conducono all'uomo
La Chiesa non può
abbandonare l'uomo, la cui "sorte", cioè la scelta, la chiamata,
la nascita e la morte, la salvezza o la perdizione, sono in modo così
stretto ed indissolubile unite al Cristo. E si tratta proprio di ogni uomo su
questo pianeta, in questa terra che il Creatore ha dato al primo uomo, dicendo
all'uomo e alla donna: "Soggiogatela e dominatela"(94). Ogni uomo,
in tutta la sua irripetibile realtà dell'essere e dell'agire, dell'intelletto
e della volontà, della coscienza e del cuore. L'uomo, nella sua singolare
realtà (perché è "persona"), ha una propria storia
della sua vita e, soprattutto, una propria storia della sua anima. L'uomo che,
conformemente all'interiore apertura del suo spirito ed insieme a tanti e così
diversi bisogni del suo corpo, della sua esistenza temporale, scrive questa
sua storia personale mediante numerosi legami, contatti, situazioni, strutture
sociali, che lo uniscono ad altri uomini, e ciò egli fa sin dal primo
momento della sua esistenza sulla terra, dal momento del suo concepimento e
della sua nascita. L'uomo, nella piena verità della sua esistenza, del
suo essere personale ed insieme del suo essere comunitario e sociale - nell'àmbito
della propria famiglia, nell'àmbito di società e di contesti tanto
diversi, nell'àmbito della propria nazione, o popolo (e, forse, ancora
solo del clan, o tribù), nell'àmbito di tutta l'umanità
- quest'uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento
della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa,
via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero
dell'Incarnazione e della Redenzione.
Proprio quest'uomo in tutta la verità della sua vita, nella sua coscienza,
nella sua continua inclinazione al peccato ed insieme nella sua continua aspirazione
alla verità, al bene, al bello, alla giustizia, all'amore, proprio un
tale uomo aveva davanti agli occhi il Concilio Vaticano II allorché,
delineando la sua situazione nel mondo contemporaneo, si portava sempre dalle
componenti esterne di questa situazione alla verità immanente dell'umanità:
"E' proprio all'interno dell'uomo che molti elementi si contrastano a vicenda.
Da una parte, infatti, come creatura, egli sperimenta in mille modi i suoi limiti;
d'altra parte, si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato
ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, egli è costretto
sempre a sceglierne qualcuna ed a rinunciare alle altre. Inoltre, debole e peccatore,
non di raro fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui
soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così
gravi discordie nella società"(95).
Quest'uomo è la via della Chiesa, via che corre, in un certo modo, alla
base di tutte quelle vie, per le quali deve camminare la Chiesa, perché
l'uomo - ogni uomo senza eccezione alcuna - è stato redento da Cristo,
perché con l'uomo - ciascun uomo senza eccezione alcuna - Cristo è
in qualche modo unito, anche quando quell'uomo non è di ciò consapevole:
"Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo" - ad
ogni uomo e a tutti gli uomini - "... luce e forza per rispondere alla
suprema sua vocazione"(96).
Essendo quindi quest'uomo la via della Chiesa, via della quotidiana sua vita
ed esperienza, della sua missione e fatica, la Chiesa del nostro tempo deve
essere, in modo sempre nuovo, consapevole della di lui "situazione".
Deve cioè essere consapevole delle sue possibilità, che prendono
sempre nuovo orientamento e così si manifestano; la Chiesa deve, nello
stesso tempo, essere consapevole delle minacce che si presentano all'uomo. Deve
essere consapevole, altresì, di tutto ciò che sembra essere contrario
allo sforzo perché "la vita umana divenga sempre più umana"(97),
perché tutto ciò che compone questa vita risponda alla vera dignità
dell'uomo. In una parola, dev'essere consapevole di tutto ciò che è
contrario a quel processo.
15. Di che cosa ha paura l'uomo contemporaneo
Conservando quindi viva
nella memoria l'immagine che in modo così perspicace e autorevole ha
tracciato il Concilio Vaticano II, cercheremo ancora una volta di adattare questo
quadro ai "segni dei tempi", nonché alle esigenze della situazione,
che continuamente cambia ed evolve in determinate direzioni.
L'uomo d'oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè
dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del
suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa
multiforme attività dell'uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile,
sono non soltanto e non tanto oggetto di "alienazione", nel senso
che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente,
in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono
contro l'uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono esser diretti contro
di lui. In questo sembra consistere l'atto principale del dramma dell'esistenza
umana contemporanea, nella sua più larga ed universale dimensione. L'uomo,
pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti,
naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli
che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua
iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme
che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione,
di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi
conosciamo, sembrano impallidire. Deve nascere, quindi, un interrogativo: per
quale ragione questo potere, dato sin dall'inizio all'uomo, potere per il quale
egli doveva dominare la terra(98), si rivolge contro lui stesso, provocando
un comprensibile stato d'inquietudine, di cosciente o incosciente paura, di
minaccia, che in vari modi si comunica a tutta la famiglia umana contemporanea
e si manifesta sotto vari aspetti?
Questo stato di minaccia per l'uomo, da parte dei suoi prodotti, ha varie direzioni
e vari gradi di intensità. Sembra che siamo sempre più consapevoli
del fatto che lo sfruttamento della terra, del pianeta su cui viviamo, esiga
una razionale ed onesta pianificazione. Nello stesso tempo, tale sfruttamento
per scopi non soltanto industriali, ma anche militari, lo sviluppo della tecnica
non controllato né inquadrato in un piano a raggio universale ed autenticamente
umanistico, portano spesso con sé la minaccia all'ambiente naturale dell'uomo,
lo alienano nei suoi rapporti con la natura, lo distolgono da essa. L'uomo sembra
spesso non percepire altri significati del suo ambiente naturale, ma solamente
quelli che servono ai fini di un immediato uso e consumo. Invece, era volontà
del Creatore che l'uomo comunicasse con la natura come "padrone" e
"custode" intelligente e nobile, e non come "sfruttatore"
e "distruttore" senza alcun riguardo.
Lo sviluppo della tecnica e lo sviluppo della civiltà del nostro tempo,
che è contrassegnato dal dominio della tecnica stessa, esigono un proporzionale
sviluppo della vita morale e dell'etica. Intanto quest'ultimo sembra, purtroppo,
rimanere sempre arretrato. Perciò, quel progresso, peraltro tanto meraviglioso,
in cui è difficile non scorgere anche autentici segni della grandezza
dell'uomo, i quali, nei loro germi creativi, ci sono rivelati nelle pagine del
Libro della Genesi, già nella descrizione della sua creazione(99), non
può non generare molteplici inquietudini. La prima inquietudine riguarda
la questione essenziale e fondamentale: questo progresso, il cui autore e fautore
è l'uomo, rende la vita umana sulla terra, in ogni suo aspetto, "più
umana"? La rende più "degna dell'uomo"? Non ci può
esser dubbio che, sotto vari aspetti, la renda tale. Quest'interrogativo, però,
ritorna ostinatamente per quanto riguarda ciò che è essenziale
in sommo grado: se l'uomo, come uomo, nel contesto di questo progresso, diventi
veramente migliore, cioè più maturo spiritualmente, più
cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile,
più aperto agli altri, in particolare verso i più bisognosi e
più deboli, più disponibile a dare e portare aiuto a tutti.
Questa è la domanda che i cristiani debbono porsi, proprio perché
Gesù Cristo li ha così uni versalmente sensibilizzati intorno
al problema dell'uomo. E la stessa domanda debbono anche porsi tutti gli uomini,
specialmente coloro che appartengono a quegli ambienti sociali, che si dedicano
attivamente allo sviluppo ed al progresso nei nostri tempi. Osservando questi
processi ed avendo parte in essi, non possiamo lasciarci prendere dall'euforia,
né possiamo lasciarci trasportare da un unilaterale entusiasmo per le
nostre conquiste, ma tutti dobbiamo porci, con assoluta lealtà, con obiettività
e con senso di responsabilità morale, le domande essenziali che riguardano
la situazione dell'uomo, oggi e nel futuro. Tutte le conquiste, finora raggiunte,
e quelle progettate dalla tecnica per il futuro, vanno d'accordo col progresso
morale e spirituale dell'uomo? In questo contesto l'uomo, in quanto uomo, si
sviluppa e progredisce, oppure regredisce e si degrada nella sua umanità?
Prevale negli uomini, "nel mondo dell'uomo" - che in se stesso è
un mondo di bene e di male morale - il bene sul male? Crescono davvero negli
uomini, fra gli uomini, l'amore sociale, il rispetto dei diritti altrui - per
ogni uomo, nazione, popolo - o, al contrario, crescono gli egoismi di varie
dimensioni, i nazionalismi esagerati, al posto dell'autentico amore di patria,
ed anche la tendenza a dominare gli altri al di là dei propri legittimi
diritti e meriti, e la tendenza a sfruttare tutto il progresso materiale e tecnico-produttivo
esclusivamente allo scopo di dominare sugli altri o in favore di tale o talaltro
imperialismo?
Ecco gli interrogativi essenziali, che la Chiesa non può non porsi, perché
in modo più o meno esplicito se li pongono miliardi di uomini che vivono
oggi nel mondo. Il tema dello sviluppo e del progresso è sulla bocca
di tutti ed appare sulle colonne di tutti i giornali e pubblicazioni, in quasi
tutte le lingue del mondo contemporaneo. Non dimentichiamo, però, che
questo tema non contiene soltanto affermazioni e certezze, ma anche domande
e angosciose inquietudini. Queste ultime non sono meno importanti delle prime.
Esse rispondono alla natura della conoscenza umana, ed ancor più rispondono
al bisogno fondamentale della sollecitudine dell'uomo per l'uomo, per la stessa
sua umanità, per il futuro degli uomini sulla terra. La Chiesa, che è
animata dalla fede escatologica, considera questa sollecitudine per l'uomo,
per la sua umanità, per il futuro degli uomini sulla terra e, quindi,
anche per l'orientamento di tutto lo sviluppo e del progresso, come un elemento
essenziale della sua missione, indissolubilmente congiunto con essa. Ed il principio
di questa sollecitudine essa lo trova in Gesù Cristo stesso, come testimoniano
i Vangeli. Ed è per questo che desidera accrescerla continuamente in
Lui, rileggendo la situazione dell'uomo nel mondo contemporaneo, secondo i più
importanti segni del nostro tempo.
16. Progresso o minaccia?
Se, dunque, il nostro tempo,
il tempo della nostra generazione, il tempo che si sta avvicinando alla fine
del secondo Millennio della nostra èra cristiana, si rivela a noi come
tempo di grande progresso, esso appare, altresì, come tempo di multiforme
minaccia per l'uomo, della quale la Chiesa deve parlare a tutti gli uomini di
buona volontà, ed intorno alla quale deve sempre dialogare con loro.
La situazione dell'uomo nel mondo contemporaneo, infatti, sembra lontana dalle
esigenze oggettive dell'ordine morale, come dalle esigenze della giustizia e,
ancora più, dell'amore sociale. Non si tratta qui che di ciò che
ha trovato la sua espressione nel primo messaggio del Creatore, rivolto all'uomo
nel momento in cui gli dava la terra, perché la "soggiogasse"(100).
Questo primo messaggio è stato riconfermato, nel mistero della Redenzione,
da Cristo Signore. Ciò è espresso dal Concilio Vaticano II in
quei bellissimi capitoli del suo insegnamento che riguardano la "regalità"
dell'uomo, cioè la sua vocazione a partecipare all'ufficio regale - il
munus regale - di Cristo stesso(101). Il senso essenziale di questa "regalità"
e di questo "dominio" dell'uomo sul mondo visibile, a lui assegnato
come còmpito dallo stesso Creatore, consiste nella priorità dell'etica
sulla tecnica, nel primato della persona sulle cose, nella superiorità
dello spirito sulla materia.
E' per questo che bisogna seguire attentamente tutte le fasi del progresso odierno:
bisogna, per cosl dire, fare la radiografia delle sue singole tappe proprio
da questo punto di vista. Si tratta dello sviluppo delle persone e non soltanto
della moltiplicazione delle cose, delle quali le persone possono servirsi. Si
tratta - come ha detto un filosofo contemporaneo e come ha affermato il Concilio
- non tanto di "avere di più", quanto di "essere di più"(102).
Infatti, esiste già un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce
enormemente il dominio da parte dell'uomo sul mondo delle cose, di questo suo
dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia
sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche
se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l'organizzazione
della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione
dei mezzi di comunicazione sociale. L'uomo non può rinunciare a se stesso,
né al posto che gli spetta nel mondo visibile; non può diventare
schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione,
schiavo dei suoi propri prodotti. Una civiltà dal profilo puramente materialistico
condanna l'uomo a tale schiavitù, pur se talvolta, indubbiamente, ciò
avvenga contro le intenzioni e le premesse stesse dei suoi pionieri. Alle radici
dell'attuale sollecitudine per l'uomo sta senz'altro questo problema. Non si
tratta qui soltanto di dare una risposta astratta alla domanda: chi è
l'uomo; ma si tratta di tutto il dinamismo della vita e della civiltà.
Si tratta del senso delle varie iniziative della vita quotidiana e, nello stesso
tempo, delle premesse per numerosi programmi di civilizzazione, programmi politici,
economici, sociali, statali e molti altri.
Se osiamo definire la situazione dell'uomo nel mondo contemporaneo come lontana
dalle esigenze oggettive dell'ordine morale, lontana dalle esigenze della giustizia
e, ancor più, dall'amore sociale, è perché ciò viene
confermato dai ben noti fatti e dai raffronti, che più volte hanno già
avuto diretta risonanza sulle pagine delle enunciazioni pontificie, conciliari,
sinodali(103). La situazione dell'uomo nella nostra epoca non è certamente
uniforme, ma differenziata in modo molteplice. Queste differenze hanno le loro
cause storiche, ma hanno anche una loro forte risonanza etica. E, infatti, ben
noto il quadro della civiltà consumistica, che consiste in un certo eccesso
dei beni necessari all'uomo, alle società intere - e qui si tratta proprio
delle società ricche e molto sviluppate -, mentre le rimanenti società,
almeno larghi strati di esse, soffrono la fame, e molte persone muoiono ogni
giorno di denutrizione e di inedia. Di pari passo va per gli uni un certo abuso
della libertà, che è legato proprio ad un atteggiamento consumistico
non controllato dall'etica, ed esso limita contemporaneamente la libertà
degli altri, cioè di coloro che soffrono rilevanti deficienze e vengono
spinti verso condizioni di ulteriore miseria ed indigenza.
Questo raffronto, universalmente noto, e il contrasto al quale si sono richiamati,
nei documenti del loro magistero, i Pontefici del nostro secolo, più
recentemente Giovanni XXIII come anche Paolo VI(104), rappresentano come il
gigantesco sviluppo della parabola biblica del ricco epulone e del povero Lazzaro(105).
L'ampiezza del fenomeno chiama in causa le strutture e i meccanismi finanziari,
monetari, produttivi e commerciali, che, poggiando su diverse pressioni politiche,
reggono l'economia mondiale: essi si rivelano quasi incapaci sia di riassorbire
le ingiuste situazioni sociali, ereditate dal passato, sia di far fronte alle
urgenti sfide ed alle esigenze etiche del presente. Sottoponendo l'uomo alle
tensioni da lui stesso create, dilapidando ad un ritmo accelerato le risorse
materiali ed energetiche, compromettendo l'ambiente geofisico, queste strutture
fanno estendere incessantemente le zone di miseria e, con questa, l'angoscia,
la frustrazione e l'amarezza(106).
Ci troviamo qui dinanzi ad un grande dramma, che non può lasciare nessuno
indifferente. Il soggetto che, da una parte, cerca di trarre il massimo profitto
e quello che, dall'altra parte, paga il tributo dei danni e delle ingiurie,
è sempre l'uomo. Il dramma viene ancor più esasperato dalla vicinanza
con gli strati sociali privilegiati e con i paesi dell'opulenza, che accumulano
i beni in grado eccessivo, e la cui ricchezza diventa, molto spesso per abuso,
causa di diversi malesseri. Si aggiungano la febbre dell'inflazione e la piaga
della disoccupazione: ecco altri sintomi di questo disordine morale, che si
fa notare nella situazione mondiale e che richiede, pertanto, risoluzioni audaci
e creative, conformi all'autentica dignità dell'uomo(107).
Un tal còmpito non è impossibile da realizzare. Il principio di
solidarietà, in senso largo, deve ispirare la ricerca efficace di istituzioni
e di meccanismi appropriati: si tratti del settore degli scambi, dove bisogna
lasciarsi guidare dalle leggi di una sana competizione, e si tratti anche del
piano di una più ampia e più immediata ridistribuzione delle ricchezze
e dei controlli su di esse, affinché i popoli che sono in via di sviluppo
economico possano non soltanto appagare le loro esigenze essenziali, ma anche
progredire gradualmente ed efficacemente.
Su questa difficile strada, sulla strada dell'indispensabile trasformazione
delle strutture della vita economica non sarà facile avanzare se non
interverrà una vera conversione della mente, della volontà e del
cuore. Il còmpito richiede l'impegno risoluto di uomini e di popoli liberi
e solidali. Troppo spesso si confonde la libertà con l'istinto dell'interesse
individuale o collettivo o, ancora, con l'istinto di lotta e di dominio, qualunque
siano i colori ideologici con cui essi son dipinti. E' ovvio che tali istinti
esistono ed operano, ma non sarà possibile alcuna economia veramente
umana, se essi non vengono assunti, orientati e dominati dalle forze più
profonde, che si trovano nell'uomo e che decidono della vera cultura dei popoli.
Proprio da queste sorgenti deve nascere lo sforzo, in cui si esprimerà
la vera libertà dell'uomo, e che sarà capace di assicurarla anche
in campo economico. Lo sviluppo economico, con tutto ciò che fa parte
del suo adeguato modo di funzionare, deve essere costantemente programmato e
realizzato all'interno di una prospettiva di sviluppo universale e solidale
dei singoli uomini e dei popoli, come ricordava in modo convincente il mio Predecessore
Paolo VI nella Populorum Progressio. Senza di ciò, la sola categoria
del "progresso economico" diventa una categoria superiore che subordina
l'insieme dell'esistenza umana alle sue esigenze parziali, soffoca l'uomo, disgrega
le società e finisce per avvilupparsi nelle proprie tensioni e negli
stessi suoi eccessi.
E' possibile assumere questo dovere: lo testimoniano i fatti certi ed i risultati,
che è difficile qui enumerare analiticamente. Una cosa, però,
è certa: alla base di questo gigantesco campo bisogna stabilire, accettare
ed approfondire il senso della responsabilità morale, che l'uomo deve
far suo. Ancora e sempre: l'uomo. Per noi cristiani una tale responsabilità
diventa particolarmente evidente, quando ricordiamo - e dobbiamo sempre ricordare
- la scena del giudizio finale, secondo le parole di Cristo riportate nel Vangelo
di Matteo(108).
Questa scena escatologica dev'esser sempre "applicata" alla storia
dell'uomo, dev'esser sempre fatta "metro" degli atti umani, come uno
schema essenziale di un esame di coscienza per ciascuno e per tutti: "Ho
avuto fame, e non mi avete dato da mangiare...; ero nudo, e non mi avete vestito...;
ero in carcere, e non mi avete visitato"(109). Queste parole acquistano
una maggiore carica ammonitrice, se pensiamo che, invece del pane e dell'aiuto
culturale ai nuovi stati e nazioni che si stanno destando alla vita indipendente,
vengono offerti, talvolta in abbondanza, armi moderne e mezzi di distruzione,
posti a servizio di conflitti armati e di guerre, che non sono tanto un'esigenza
della difesa dei loro giusti diritti e della loro sovranità, quanto piuttosto
una forma di sciovinismo, di imperialismo, di neocolonialismo di vario genere.
Tutti sappiamo bene che le zone di miseria o di fame, che esistono sul nostro
globo, avrebbero potuto essere "fertilizzate" in breve tempo, se i
giganteschi investimenti per gli armamenti, che servono alla guerra e alla distruzione,
fossero stati invece cambiati in investimenti per il nutrimento, che servono
alla vita.
Forse questa considerazione rimarrà parzialmente "astratta";
forse offrirà l'occasione all'una e all'altra "parte" per accusarsi
reciprocamente, dimenticando ognuna le proprie colpe. Forse provocherà
anche nuove accuse contro la Chiesa. Questa, però, non disponendo di
altre armi che di quelle dello spirito, della parola e dell'amore, non può
rinunciare ad annunziare "la parola ... in ogni occasione opportuna e non
opportuna"(110). Per questo, non cessa di pregare ciascuna delle due parti,
e di chiedere a tutti nel nome di Dio e nel nome dell'uomo: Non uccidete! Non
preparate agli uomini distruzioni e sterminio! Pensate ai vostri fratelli che
soffrono fame e miseria! Rispettate la dignità e la libertà di
ciascuno!
17. Diritti dell'uomo: "lettera" o "spirito"
Il nostro secolo è
stato finora un secolo di grandi calamità per l'uomo, di grandi devastazioni
non soltanto materiali, ma anche morali, anzi forse soprattutto morali. Certamente,
non è facile paragonare sotto questo aspetto epoche e secoli, poiché
ciò dipende anche dai criteri storici che cambiano. Nondimeno, senza
stabilire questi paragoni, bisogna pur constatare che finora questo secolo è
stato un secolo in cui gli uomini hanno preparato a se stessi molte ingiustizie
e sofferenze. Questo processo è stato decisamente frenato? In ogni caso,
non si può qui non ricordare, con stima e con profonda speranza per il
futuro, il magnifico sforzo compiuto per dare vita all'Organizzazione delle
Nazioni Unite, uno sforzo che tende a definire e stabilire gli oggettivi ed
inviolabili diritti dell'uomo, obbligandosi reciprocamente gli Stati-membri
ad una rigorosa osservanza di essi. Questo impegno è stato accettato
e ratificato da quasi tutti gli Stati del nostro tempo, e ciò dovrebbe
costituire una garanzia perché i diritti dell'uomo diventino, in tutto
il mondo, principio fondamentale dell'azione per il bene dell'uomo.
La Chiesa non ha bisogno di confermare quanto questo problema sia strettamente
collegato con la sua missione nel mondo contemporaneo. Esso, infatti, sta alle
basi stesse della pace sociale e internazionale, come hanno dichiarato al riguardo
Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II e poi Paolo VI in particolareggiati
documenti. In definitiva, la pace si riduce al rispetto dei diritti inviolabili
dell'uomo - opera di giustizia è la pace -, mentre la guerra nasce dalla
violazione di questi diritti e porta con sé ancor più gravi violazioni
di essi. Se i diritti dell'uomo vengono violati in tempo di pace, ciò
diventa particolarmente doloroso e, dal punto di vista del progresso, rappresenta
un incomprensibile fenomeno della lotta contro l'uomo, che non può in
nessun modo accordarsi con un qualsiasi programma che si autodefinisca "umanistico".
E quale programma sociale, economico, politico, culturale potrebbe rinunciare
a questa definizione? Nutriamo la profonda convinzione che non c'è nel
mondo di oggi alcun programma in cui, perfino sulla piattaforma di opposte ideologie
circa la concezione del mondo, non venga messo sempre in primo piano l'uomo.
Ora, se malgrado tali premesse, i diritti dell'uomo vengono in vario modo violati,
se in pratica siamo testimoni dei campi di concentramento, della violenza, della
tortura, del terrorismo e di molteplici discriminazioni, ciò deve essere
una conseguenza delle altre premesse che minano, o spesso annientano quasi l'efficacia
delle premesse umanistiche di quei programmi e sistemi moderni. S'impone allora
necessariamente il dovere di sottoporre gli stessi programmi ad una continua
revisione dal punto di vista degli oggettivi ed inviolabili diritti dell'uomo.
La Dichiarazione di questi diritti, unitamente all'istituzione dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite, non aveva certamente soltanto il fine di distaccarsi dalle
orribili esperienze dell'ultima guerra mondiale, ma anche quello di creare una
base per una continua revisione dei programmi, dei sistemi, dei regimi, proprio
da quest'unico fondamentale punto di vista, che è il bene dell'uomo -
diciamo della persona nella comunità - e che, come fattore fondamentale
del bene comune, deve costituire l'essenziale criterio di tutti i programmi,
sistemi, regimi. In caso contrario, la vita umana, anche in tempo di pace, è
condannata a varie sofferenze e, nello stesso tempo, insieme con esse si sviluppano
varie forme di dominio, di totalitarismo, di neocolonialismo, di imperialismo,
che minacciano anche la convivenza tra le nazioni. Invero, è un fatto
significativo e confermato a più riprese dalle esperienze della storia,
come la violazione dei diritti dell'uomo vada di pari passo con la violazione
dei diritti della nazione, con la quale l'uomo è unito da legami organici,
come con una più grande famiglia.
Già fin dalla prima metà di questo secolo, nel periodo in cui
si stavano sviluppando vari totalitarismi di Stato, i quali - come è
noto - portarono all'orribile catastrofe bellica, la Chiesa aveva chiaramente
delineato la sua posizione di fronte a questi regimi, che apparentemente agivano
per un bene superiore, qual è il bene dello Stato, mentre la storia avrebbe
invece dimostrato che quello era solo il bene di un determinato partito, identificatosi
con lo Stato(111). In realtà, quei regimi avevano coartato i diritti
dei cittadini, negando loro il riconoscimento proprio di quegli inviolabili
diritti dell'uomo che, verso la metà del nostro secolo, hanno ottenuto
la loro formulazione in sede internazionale. Nel condividere la gioia di questa
conquista con tutti gli uomini di buona volontà, con tutti gli uomini
che amano veramente la giustizia e la pace, la Chiesa, consapevole che la sola
"lettera" può uccidere, mentre soltanto "lo spirito dà
vita"(112), deve insieme con questi uomini di buona volontà domandare
continuamente se la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e l'accettazione della
loro "lettera" significhino dappertutto anche la realizzazione del
loro "spirito". Sorgono, infatti, timori fondati che molto spesso
siamo ancora lontani da questa realizzazione, e che talvolta lo spirito della
vita sociale e pubblica si trova in una dolorosa opposizione con la dichiarata
"lettera" dei diritti dell'uomo. Questo stato di cose, gravoso per
le rispettive società, renderebbe particolarmente responsabili, di fronte
a queste società ed alla storia dell'uomo, coloro che contribuiscono
a determinarlo.
Il senso essenziale dello Stato, come comunità politica, consiste nel
fatto che la società o chi la compone, il popolo, è sovrano della
propria sorte. Questo senso non viene realizzato, se, al posto dell'esercizio
del potere con la partecipazione morale della società o del popolo, assistiamo
all'imposizione del potere da parte di un determinato gruppo a tutti gli altri
membri di questa società. Queste cose sono essenziali nella nostra epoca,
in cui è enormemente aumentata la coscienza sociale degli uomini ed insieme
con essa il bisogno di una corretta partecipazione dei cittadini alla vita politica
della comunità, tenendo conto delle reali condizioni di ciascun popolo
e del necessario vigore dell'autorità pubblica(113). Questi sono, quindi,
problemi di primaria importanza dal punto di vista del progresso dell'uomo stesso
e dello sviluppo globale della sua umanità.
La Chiesa ha sempre insegnato il dovere di agire per il bene comune e, così
facendo, ha educato altresì buoni cittadini per ciascuno Stato. Essa,
inoltre, ha sempre insegnato che il dovere fondamentale del potere è
la sollecitudine per il bene comune della società; da qui derivano i
suoi fondamentali diritti. Proprio nel nome di queste premesse attinenti all'ordine
etico oggettivo, i diritti del potere non possono essere intesi in altro modo
che in base al rispetto dei diritti oggettivi e inviolabili dell'uomo. Quel
bene comune, che l'autorità serve nello Stato, è pienamente realizzato
solo quando tutti i cittadini sono sicuri dei loro diritti. Senza questo si
arriva allo sfacelo della società, all'opposizione dei cittadini all'autorità,
oppure ad una situazione di oppressione, di intimidazione, di violenza, di terrorismo,
di cui ci hanno fornito numerosi esempi i totalitarismi del nostro secolo. E'
così che il principio dei diritti dell'uomo tocca profondamente il settore
della giustizia sociale e diventa metro per la sua fondamentale verifica nella
vita degli Organismi politici.
Fra questi diritti si annovera, e giustamente, il diritto alla libertà
religiosa accanto al diritto alla libertà di coscienza. Il Concilio Vaticano
II ha ritenuto particolarmente necessaria l'elaborazione di una più ampia
Dichiarazione su questo tema. E il documento che s'intitola Dignitatis Humanae(114),
nel quale è stata espressa non soltanto la concezione teologica del problema,
ma anche la concezione dal punto di vista del diritto naturale, cioè
dalla posizione "puramente umana", in base a quelle premesse dettate
dall'esperienza stessa dell'uomo, dalla sua ragione e dal senso della sua dignità.
Certamente, la limitazione della libertà religiosa delle persone e delle
comunità non è soltanto una loro dolorosa esperienza, ma colpisce
innanzitutto la dignità stessa dell'uomo, indipendentemente dalla religione
professata o dalla concezione che esse hanno del mondo. La limitazione della
libertà religiosa e la sua violazione contrastano con la dignità
dell'uomo e con i suoi diritti oggettivi. Il sunnominato documento conciliare
dice con bastante chiarezza che cosa sia una tale limitazione e violazione della
libertà religiosa. Indubbiamente, ci troviamo in questo caso di fronte
a una ingiustizia radicale riguardo a ciò che è particolarmente
profondo nell'uomo, riguardo a ciò che è autenticamente umano.
Difatti, perfino lo stesso fenomeno dell'incredulità, areligiosità
e ateismo, come fenomeno umano, si comprende soltanto in relazione al fenomeno
della religione e della fede. E' pertanto difficile, anche da un punto di vista
"puramente umano", accettare una posizione, secondo la quale solo
l'ateismo ha diritto di cittadinanza nella vita pubblica e sociale, mentre gli
uomini credenti, quasi per principio, sono appena tollerati, oppure trattati
come cittadini di categoria inferiore, e perfino - il che è già
accaduto - sono del tutto privati dei diritti di cittadinanza.
Occorre, pur se brevemente, trattare anche questo tema, perché anch'esso
rientra nel complesso delle situazioni dell'uomo nel mondo attuale, perché
anch'esso testimonia quanto questa situazione sia gravata da pregiudizi e da
ingiustizie di vario genere. Se ci asteniamo dall'entrare nei particolari proprio
in questo campo, in cui avremmo uno speciale diritto e dovere di farlo, ciò
è soprattutto perché, insieme con tutti coloro che soffrono i
tormenti della discriminazione e della persecuzione per il nome di Dio, siamo
guidati dalla fede nella forza redentrice della croce di Cristo. Tuttavia, in
virtù del mio ufficio, desidero a nome di tutti i credenti del mondo
intero, rivolgermi a coloro da cui, in qualche modo, dipende l'organizzazione
della vita sociale e pubblica, domandando ad essi ardentemente di rispettare
i diritti della religione e dell'attività della Chiesa. Non si chiede
alcun privilegio, ma il rispetto di un elementare diritto. L'attuazione di questo
diritto è una delle fondamentali verifiche dell'autentico progresso dell'uomo
in ogni regime, in ogni società, sistema o ambiente.
IV
LA MISSIONE DELLA CHIESA E LA SORTE DELL'UOMO
18. La Chiesa sollecita della vocazione dell'uomo in Cristo
Questo sguardo, necessariamente
sommario, alla situazione dell'uomo nel mondo contemporaneo ci fa indirizzare
ancor più il pensiero e il cuore a Gesù Cristo, al mistero della
Redenzione, in cui il problema dell'uomo è inscritto con una speciale
forza di verità e di amore. Se Cristo "si è unito in certo
modo ad ogni uomo"(115), la Chiesa, penetrando nell'intimo di questo mistero,
nel suo ricco e universale linguaggio, vive anche più profondamente la
propria natura e missione. Non invano l'Apostolo parla del Corpo di Cristo,
che è la Chiesa(116). Se questo Corpo mistico di Cristo è Popolo
di Dio - come dirà in seguito il Concilio Vaticano II, basandosi su tutta
la tradizione biblica e patristica - ciò significa che ogni uomo è
in esso penetrato da quel soffio di vita che proviene da Cristo. In questo modo
anche il volgersi verso l'uomo, verso i suoi reali problemi, verso le sue speranze
e sofferenze, conquiste e cadute, fa sì che la Chiesa stessa come corpo,
come organismo, come unità sociale, percepisca gli stessi impulsi divini,
i lumi e le forze dello Spirito che provengono da Cristo crocifisso e risorto,
ed è proprio per questo che essa vive la sua vita. La Chiesa non ha altra
vita all'infuori di quella che le dona il suo Sposo e Signore. Difatti, proprio
perché Cristo nel mistero della sua Redenzione si è unito ad essa,
la Chiesa deve essere saldamente unita con ciascun uomo.
Questa unione del Cristo con l'uomo è in se stessa un mistero, dal quale
nasce "l'uomo nuovo", chiamato a partecipare alla vita di Dio(117),
creato nuovamente in Cristo alla pienezza della grazia e della verità(118).
L'unione del Cristo con l'uomo è la forza e la sorgente della forza,
secondo l'incisiva espressione di S. Giovanni nel prologo del suo Vangelo: "Il
Verbo ha dato potere di diventare figli di Dio"(119). Questa è la
forza che trasforma interiormente l'uomo, quale principio di una vita nuova
che non svanisce e non passa, ma dura per la vita eterna(120). Questa vita,
promessa e offerta a ciascun uomo dal Padre in Gesù Cristo, eterno ed
unigenito Figlio, incarnato e nato "quando venne la pienezza del tempo"(121)
dalla Vergine Maria, è il compimento finale della vocazione dell'uomo.
E' in qualche modo compimento di quella "sorte", che dall'eternità
Dio gli ha preparato. Questa "sorte divina" si fa via, al di sopra
di tutti gli enigmi, le incognite, le tortuosità, le curve della "sorte
umana" nel mondo temporale. Se, infatti, tutto ciò porta, pur con
tutta la ricchezza della vita temporale, per inevitabile necessità, alla
frontiera della morte ed al traguardo della distruzione del corpo umano, appare
a noi il Cristo oltre questo traguardo: "Io sono la risurrezione e la vita;
chi crede in me..., non morrà in eterno"(122). In Gesù Cristo
crocifisso, deposto nel sepolcro e poi risorto, "rifulge per noi la speranza
della beata risurrezione, la promessa dell'immortalità futura"(123),
verso la quale l'uomo va attraverso la morte del corpo, condividendo con tutto
il creato visibile questa necessità, alla quale è soggetta la
materia. Noi intendiamo e cerchiamo di approfondire sempre di più il
linguaggio di questa verità, che il Redentore dell'uomo ha racchiuso
nella frase: "E' lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a
nulla"(124). Queste parole, malgrado le apparenze, esprimono la più
alta affermazione dell'uomo: l'affermazione del corpo, che lo Spirito vivifica!
La Chiesa vive queste realtà, vive di questa verità sull'uomo,
che le permette di varcare le frontiere della temporaneità e, simultaneamente,
di pensare con particolare amore e sollecitudine a tutto ciò che, nelle
dimensioni di questa temporaneità, incide sulla vita dell'uomo, sulla
vita dello spirito umano, in cui si esprime quella perenne inquietudine, secondo
le parole di S. Agostino: "Ci hai fatto, o Signore, per te ed è
inquieto il nostro cuore, finché non riposa in te"(125). In questa
inquietudine creativa batte e pulsa ciò che è più profondamente
umano: la ricerca della verità, l'insaziabile bisogno del bene, la fame
della libertà, la nostalgia del bello, la voce della coscienza. La Chiesa,
cercando di guardare l'uomo quasi con "gli occhi di Cristo stesso",
si fa sempre più consapevole di essere la custode di un grande tesoro,
che non le è lecito sciupare, ma deve continuamente accrescere. Infatti,
il Signore Gesù ha detto: "Chi non raccoglie con me, disperde"(126).
Quel tesoro dell'umanità, arricchito dall'ineffabile mistero della figliolanza
divina(127), della grazia di "adozione a figli"(128) nell'unigenito
Figlio di Dio, mediante il quale diciamo a Dio "Abbà, Padre"(129),
è insieme una forza potente che unifica la Chiesa soprattutto dal di
dentro e dà senso a tutta la sua attività. Per tale forza la Chiesa
si unisce con lo Spirito di Cristo, con quello Spirito Santo che il Redentore
aveva promesso, che comunica continuamente, e la cui discesa, rivelata il giorno
della Pentecoste, perdura sempre. Così negli uomini si rivelano le forze
dello Spirito(130), i doni dello Spirito(131), i frutti dello Spirito Santo(132).
E la Chiesa del nostro tempo sembra ripetere con sempre maggior fervore e con
santa insistenza: "Vieni, o Santo Spirito!". Vieni! Vieni! "Lava
ciò che è sordido! Feconda ciò che è arido! Risana
ciò che è ferito! Piega ciò che è rigido! Riscalda
ciò che è gelido! Raddrizza ciò che è sviato!"(133).
Questa supplica allo Spirito, intesa appunto ad ottenere lo Spirito, è
la risposta a tutti i "materialismi" della nostra epoca. Sono essi
che fanno nascere tante forme di insaziabilità del cuore umano. Questa
supplica si fa sentire da diverse parti e sembra che fruttifichi anche in modi
diversi. Si può dire che in questa supplica la Chiesa non sia sola? Sì,
si può dire, perché "il bisogno" di ciò che è
spirituale è espresso anche da persone che si trovano al di fuori dei
confini visibili della Chiesa(134). Non è ciò confermato forse
da quella verità sulla Chiesa, messa in evidenza con tanta acutezza dal
recente Concilio nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium, laddove insegna
che la Chiesa è "sacramento, o segno e strumento dell'intima unione
con Dio e dell'unità di tutto il genere umano"?(135) Questa invocazione
allo Spirito e per lo Spirito non è altro che un costante introdursi
nella piena dimensione del mistero della Redenzione, in cui Cristo, unito al
Padre e con ogni uomo, ci comunica continuamente quello Spirito che mette in
noi i sentimenti del Figlio e ci orienta verso il Padre(136). E' per questo
che la Chiesa della nostra epoca - epoca particolarmente affamata di Spirito,
perché affamata di giustizia, di pace, di amore, di bontà, di
fortezza, di responsabilità, di dignítà umana - deve concentrarsi
e riunirsi intorno a quel mistero, ritrovando in esso la luce e la forza indispensabili
per la propria missione. Se infatti - come è stato detto in precedenza
- l'uomo è la via della vita quotidiana della Chiesa, è necessario
che la stessa Chiesa sia sempre consapevole della dignità dell'adozione
divina che l'uomo ottiene, in Cristo, per la grazia dello Spirito Santo(137),
e della destinazione alla grazia e alla gloria(138). Riflettendo sempre di nuovo
su tutto questo, accettandolo con una fede sempre più cosciente e con
un amore sempre più fermo, la Chiesa si rende, al tempo stesso, più
idonea a quel servizio dell'uomo, a cui Cristo Signore la chiama, quando dice:
"Il Figlio dell'uomo... non è venuto per essere servito, ma per
servire"(139). La Chiesa esplica questo suo ministero, partecipando al
"triplice ufficio" ch'è proprio dello stesso suo Maestro e
Redentore. Questa dottrina, appoggiata sul suo fondamento biblico, è
stata messa in piena luce dal Concilio Vaticano II, con grande vantaggio per
la vita della Chiesa. Quando, infatti, diventiamo consapevoli della partecipazione
alla triplice missione del Cristo, al suo triplice ufficio - sacerdotale, profetico
e regale(140) - diventiamo parimenti più consapevoli di ciò a
cui deve servire tutta la Chiesa, come società e comunità del
Popolo di Dio sulla terra, comprendendo, altresì, quale debba essere
la partecipazione di ognuno di noi a questa missione e servizio.
19. La Chiesa responsabile della verità
Così, alla luce
della sacra dottrina del Concilio Vaticano II, la Chiesa appare davanti a noi
come soggetto sociale della responsabilità per la verità divina.
Con profonda commozione ascoltiamo Cristo stesso, quando dice: "La parola
che voi udite non è mia, ma del Padre che mi ha mandato"(141). In
questa affermazione del nostro Maestro non si avverte forse quella responsabilità
per la verità rivelata, che è "proprietà" di
Dio stesso, se perfino Lui, "Figlio unigenito" che vive "in seno
al Padre"(142), quando la trasmette come profeta e maestro, sente il bisogno
di sottolineare che agisce in piena fedeltà alla sua divina sorgente?
La medesima fedeltà deve essere una qualità costitutiva della
fede della Chiesa, sia quando essa la insegna, sia quando la professa. La fede,
come specifica virtù soprannaturale infusa nello spirito umano, ci fa
partecipi della conoscenza di Dio, come risposta alla sua Parola rivelata. Perciò,
si esige che la Chiesa, quando professa ed insegna la fede, sia strettamente
aderente alla verità divina(143), e la traduca in comportamenti vissuti
di ossequio consentaneo alla ragione(144). Cristo stesso, allo scopo di garantire
la fedeltà alla verità divina, ha promesso alla Chiesa la particolare
assistenza dello Spirito di verità, ha dato il dono dell'infallibilità(145)
a coloro, ai quali ha affidato il mandato di trasmettere tale verità
e di insegnarla(146) - come aveva già chiaramente definito il Concilio
Vaticano I(147) e, in seguito, ha ripetuto il Concilio Vaticano II(148) - ed
ha dotato, inoltre, tutto il Popolo di Dio di un particolare senso della fede(149).
Di conseguenza, siamo diventati partecipi di questa missione di Cristo-profeta
e, in forza della stessa missione, insieme con Lui serviamo la verità
divina nella Chiesa. La responsabilità per tale verità significa
anche amarla e cercarne la più esatta comprensione, in modo da renderla
più vicina a noi stessi ed agli altri in tutta la sua forza salvifica,
nel suo splendore, nella sua profondità ed insieme semplicità.
Questo amore e questa aspirazione a comprendere la verità debbono camminare
congiuntamente, come confermano le storie dei Santi della Chiesa. Essi erano
più illuminati dall'autentica luce, che rischiara la verità divina
ed avvicina la realtà stessa di Dio, perché si accostavano a questa
verità con venerazione ed amore: amore soprattutto verso Cristo, Parola
vivente della verità divina e, insieme, amore verso la sua espressione
umana nel Vangelo, nella tradizione, nella teologia. Anche oggi sono necessarie,
innanzitutto, tale comprensione e tale interpretazione della Parola divina;
è necessaria tale teologia. La teologia ebbe sempre e continua ad avere
una grande importanza, perché la Chiesa, Popolo di Dio, possa in modo
creativo e fecondo partecipare alla missione profetica di Cristo. Perciò,
i teologi, come servitori della verità divina, dedicando i loro studi
e lavori ad una sempre più penetrante comprensione di essa, non possono
mai perdere di vista il significato del loro servizio nella Chiesa, racchiuso
nel concetto dell'"intellectus fidei". Questo concetto funziona, per
così dire, a ritmo bilaterale, secondo l'espressione di S. Agostino "intellege,
ut credas; crede, ut intellegas"(150), e funziona in modo corretto allorché
essi cercano di servire il Magistero, affidato nella Chiesa ai Vescovi, uniti
col vincolo della comunione gerarchica col Successore di Pietro, ed ancora quando
si mettono a servizio della loro sollecitudine nell'insegnamento e nella pastorale,
come pure quando si mettono a servizio degli impegni apostolici di tutto il
Popolo di Dio.
Come nelle epoche precedenti, così anche oggi - e forse ancora di più
- i teologi e tutti gli uomini di scienza nella Chiesa sono chiamati ad unire
la fede con la scienza e la sapienza, per contribuire ad una loro reciproca
compenetrazione, come leggiamo nella preghiera liturgica per la memoria di Sant'Alberto,
dottore della Chiesa. Questo impegno si è oggi enormemente ampliato per
il progresso della scienza umana, dei suoi metodi e delle conquiste nella conoscenza
del mondo e dell'uomo. Ciò riguarda tanto le scienze esatte, quanto anche
le scienze umane, come pure la filosofia, i cui stretti legami con la teologia
sono stati ricordati dal Concilio Vaticano II(151).
In questo campo dell'umana conoscenza, che di continuo si allarga ed insieme
si differenzia, anche la fede deve costantemente approfondirsi, manifestando
la dimensione del mistero rivelato e tendendo alla comprensione della verità,
che ha in Dio l'unica suprema sorgente. Se è lecito - e bisogna perfino
augurarselo - che quell'enorme lavoro da svolgere in questo senso prenda in
considerazione un certo pluralismo di metodi, tuttavia tale lavoro non può
allontanarsi dalla fondamentale unità nell'insegnamento della Fede e
della Morale, quale fine che gli è proprio. E', pertanto, indispensabile
una stretta collaborazione della teologia col Magistero. Ogni teologo deve essere
particolarmente cosciente di ciò che Cristo stesso ha espresso, quando
ha detto: "La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che
mi ha mandato"(152). Nessuno, dunque, può fare della teologia quasi
che fosse una semplice raccolta dei propri concetti personali; ma ognuno deve
essere consapevole di rimanere in stretta unione con quella missione di insegnare
la verità, di cui è responsabile la Chiesa.
La partecipazione all'ufficio profetico di Cristo stesso plasma la vita di tutta
la Chiesa, nella sua dimensione fondamentale. Una speciale partecipazione a
questo ufficio compete ai Pastori della Chiesa, i quali insegnano e, di continuo
e in diversi modi, annunciano e trasmettono la dottrina della fede e della morale
cristiana. Questo insegnamento, sia sotto l'aspetto missionario che sotto quello
ordinario, contribuisce ad adunare il Popolo di Dio attorno a Cristo, prepara
alla partecipazione all'Eucaristia, indica le vie della vita sacramentale. Il
Sinodo dei Vescovi nel 1977 ha dedicato la sua specifica attenzione alla catechesi
nel mondo contemporaneo, e il frutto maturo delle sue deliberazioni, esperienze
e suggerimenti troverà, fra breve, la sua espressione - conformemente
alla proposta dei partecipanti al Sinodo - in un apposito documento pontificio.
La catechesi costituisce, certamente, una perenne e insieme fondamentale forma
di attività della Chiesa, in cui si manifesta il suo carisma profetico:
testimonianza e insegnamento vanno di pari passo. E benché qui si parli
in primo luogo dei sacerdoti, non è possibile però non ricordare
anche il grande numero di religiosi e di religiose, che si dedicano all'attività
catechistica per amore del Maestro divino. Sarebbe, infine, difficile non menzionare
tanti laici, che in questa attività trovano l'espressione della loro
fede e della responsabilità apostolica.
Inoltre, bisogna sempre più procurare che le varie forme della catechesi
ed i diversi suoi campi - a cominciare da quella forma fondamentale, che è
la catechesi "familiare", cioè la catechesi dei genitori nei
riguardi dei loro propri figli - attestino la partecipazione universale di tutto
il Popolo di Dio all'ufficio profetico di Cristo stesso. Bisogna che, in dipendenza
da questo fatto, la responsabilità della Chiesa per la verità
divina sia sempre più, e in vari modi, condivisa da tutti. E che cosa
dire qui degli specialisti delle diverse discipline, dei rappresentanti delle
scienze naturali e delle lettere, dei medici, dei giuristi, degli uomini dell'arte
e della tecnica, degli insegnanti dei vari gradi e specializzazioni? Tutti loro
- come membri del Popolo di Dio - hanno la propria parte nella missione profetica
di Cristo, nel suo servizio alla verità divina, anche con l'atteggiamento
onesto di fronte alla verità, a qualsiasi campo essa appartenga, mentre
educano gli altri nella verità e insegnano loro a maturare nell'amore
e nella giustizia. Così, dunque, il senso di responsabilità per
la verità è uno dei fondamentali punti d'incontro della Chiesa
con ogni uomo, ed è parimenti una delle fondamentali esigenze, che determinano
la vocazione dell'uomo nella comunità della Chiesa. La Chiesa dei nostri
tempi, guidata dal senso di responsabilità per la verità, deve
perseverare nella fedeltà alla propria natura, alla quale spetta la missione
profetica che proviene da Cristo stesso: "Come il Padre ha mandato me,
anch'io mando voi ... Ricevete lo Spirito Santo"(153).
20. Eucaristia e penitenza
Nel mistero della Redenzione,
cioè dell'opera salvifica operata da Gesù Cristo, la Chiesa partecipa
al Vangelo del suo Maestro non soltanto mediante la fedeltà alla Parola
ed il servizio alla verità, ma parimenti mediante la sottomissione, piena
di speranza e di amore, partecipa alla forza della sua azione redentrice, che
Egli ha espresso e racchiuso in forma sacramentale, soprattutto nell'Eucaristia(154).
Questo è il centro e il vertice di tutta la vita sacramentale, per mezzo
della quale ogni cristiano riceve la forza salvifica della Redenzione, iniziando
dal mistero del Battesimo, in cui siamo immersi nella morte di Cristo, per diventare
partecipi della sua Risurrezione(155), come insegna l'Apostolo. Alla luce di
questa dottrina, diventa ancor più chiara la ragione per cui tutta la
vita sacramentale della Chiesa e di ciascun cristiano raggiunge il suo vertice
e la sua pienezza proprio nell'Eucaristia. In questo Sacramento, infatti, si
rinnova continuamente, per volere di Cristo, il mistero del sacrificio, che
Egli fece di se stesso al Padre sull'altare della Croce: sacrificio che il Padre
accettò, ricambiando questa totale donazione di suo Figlio, che si fece
"obbediente fino alla morte"(156), con la sua paterna donazione, cioè
col dono della nuova vita immortale nella risurrezione, perché il Padre
è la prima sorgente e il datore della vita fin dal principio. Quella
vita nuova che implica la glorificazione corporale di Cristo crocifisso, è
diventata segno efficace del nuovo dono elargito all'umanità, dono che
è lo Spirito Santo, mediante il quale la vita divina, che il Padre ha
in sé e che dà al suo Figlio(157), viene comunicata a tutti gli
uomini che sono uniti con Cristo.
L'Eucaristia è il Sacramento più perfetto di questa unione. Celebrando
ed insieme partecipando all'Eucaristia, noi ci uniamo a Cristo terrestre e celeste,
che intercede per noi presso il Padre(158); ma ci uniamo sempre mediante l'atto
redentore del suo sacrificio, per mezzo del quale Egli ci ha redenti, così
che siamo stati "comprati a caro prezzo"(159). Il "caro prezzo"
della nostra redenzione comprova, parimenti, il valore che Dio stesso attribuisce
all'uomo, comprova la nostra dignità in Cristo. Diventando infatti "figli
di Dio"(160), figli di adozione(161), a sua somiglianza noi diventiamo
al tempo stesso "regno di sacerdoti", otteniamo "il sacerdozio
regale"(162), cioè partecipiamo a quell'unica e irreversibile restituzione
dell'uomo e del mondo al Padre, che Egli, Figlio eterno(163) e insieme vero
uomo, fece una volta per sempre. L'Eucaristia è il Sacramento, in cui
si esprime più compiutamente il nostro nuovo essere, in cui Cristo stesso,
incessantemente e sempre in modo nuovo, "rende testimonianza" nello
Spirito Santo al nostro spirito(164) che ognuno di noi, come partecipe del mistero
della Redenzione, ha accesso ai frutti della filiale riconciliazione con Dio(165),
quale Egli stesso aveva attuato e sempre attua fra noi mediante il ministero
della Chiesa.
E' verità essenziale, non soltanto dottrinale ma anche esistenziale,
che l'Eucaristia costruisce la Chiesa(166), e la costruisce come autentica comunità
del Popolo di Dio, come assemblea dei fedeli, contrassegnata dallo stesso carattere
di unità, di cui furono partecipi gli Apostoli ed i primi discepoli del
Signore. L'Eucaristia costruisce sempre nuovamente questa comunità e
unità; sempre la costruisce e la rigenera sulla base del sacrificio di
Cristo stesso, perché commemora la sua morte sulla Croce(167), a prezzo
della quale siamo stati redenti da Lui. Perciò, nell'Eucaristia tocchiamo,
si potrebbe dire, il mistero stesso del Corpo e del Sangue del Signore, come
testimoniano le stesse parole al momento dell'istituzione, le quali, in virtù
di essa, sono diventate le parole della perenne celebrazione dell'Eucaristia
da parte dei chiamati a questo ministero nella Chiesa.
La Chiesa vive dell'Eucaristia, vive della pienezza di questo Sacramento, il
cui stupendo contenuto e significato han trovato spesso la loro espressione
nel Magistero della Chiesa, dai tempi più remoti fino ai nostri giorni(168).
Tuttavia, possiamo dire con certezza che questo insegnamento - sorretto dalla
acutezza dei teologi, dagli uomini di profonda fede e di preghiera, dagli asceti
e mistici, in tutta la loro fedeltà al mistero eucaristico - rimane quasi
sulla soglia, essendo incapace di afferrare e di tradurre in parole ciò
che è l'Eucaristia in tutta la sua pienezza, ciò che essa esprime
e ciò che in essa si attua. Infatti, essa è il Sacramento ineffabile!
L'impegno essenziale e, soprattutto, la visibile grazia e sorgente della forza
soprannaturale della Chiesa come Popolo di Dio, è il perseverare e progredire
costantemente nella vita eucaristica, nella pietà eucaristica, è
lo sviluppo spirituale nel clima dell'Eucaristia. A maggior ragione, dunque,
non ci è lecito né nel pensiero, né nella vita, né
nell'azione togliere a questo Sacramento, veramente santissimo, la sua piena
dimensione ed il suo essenziale significato. Esso è nello stesso tempo
Sacramento-Sacrificio, Sacramento-Comunione e Sacramento-Presenza. E benché
sia vero che l'Eucaristia fu sempre e deve essere tuttora la più profonda
rivelazione e celebrazione della fratellanza umana dei discepoli e confessori
di Cristo, non può essere trattata soltanto come un'"occasione"
per manifestare questa fratellanza. Nel celebrare il Sacramento del Corpo e
del Sangue del Signore, bisogna rispettare la piena dimensione del mistero divino,
il pieno senso di questo segno sacramentale, nel quale Cristo, realmente presente,
è ricevuto, l'anima è ricolmata di Grazia e a noi vien dato il
pegno della gloria futura(169). Di qui deriva il dovere di una rigorosa osservanza
delle norme liturgiche e di tutto ciò che testimonia il culto comunitario
reso a Dio stesso, tanto più perché, in questo segno sacramentale,
Egli si afffida a noi con fiducia illimitata, come se non prendesse in considerazione
la nostra debolezza umana, la nostra indegnità, le abitudini, la "routine"
o, addirittura, la possibilità di oltraggio. Tutti nella Chiesa, ma soprattutto
i Vescovi e i Sacerdoti, debbono vigilare perché questo Sacramento di
amore sia al centro della vita del Popolo di Dio, perché, attraverso
tutte le manifestazioni del culto dovuto, si faccia in modo da rendere a Cristo
"amore per amore", perché Egli diventi veramente "vita
delle nostre anime"(170). Né, d'altra parte, potremo mai dimenticare
le seguenti parole di San Paolo: "Ciascuno, pertanto, esamini se stesso,
e poi mangi di questo pane e beva di questo calice"(171).
Questo invito dell'Apostolo indica, almeno indirettamente, lo stretto legame
fra l'Eucaristia e la Penitenza. Difatti, se la prima parola dell'insegnamento
di Cristo, la prima frase del VangeloBuona Novella, era "Convertitevi e
credete al Vangelo" (metanoèite)(172), il Sacramento della Passione,
della Croce e Risurrezione sembra rafforzare e consolidare in modo del tutto
speciale questo invito nelle nostre anime. L'Eucaristia e la Penitenza diventano
così, in un certo senso, una dimensione duplice e, insieme, intimamente
connessa dell'autentica vita secondo lo spirito del Vangelo, vita veramente
cristiana. Cristo, che invita al banchetto eucaristico, è sempre lo stesso
Cristo che esorta alla penitenza, che ripete il "Convertitevi"(173).
Senza questo costante e sempre rinnovato sforzo per la conversione, la partecipazione
all'Eucaristia sarebbe priva della sua piena efficacia redentrice, verrebbe
meno o, comunque, sarebbe in essa indebolita quella particolare disponibilità
di rendere a Dio il sacrificio spirituale(174), in cui si esprime in modo essenziale
e universale la nostra partecipazione al sacerdozio di Cristo. In Cristo, infatti,
il sacerdozio è unito col proprio sacrificio, con la sua donazione al
Padre; e tale donazione, appunto perché è illimitata, fa nascere
in noi - uomini soggetti a molteplici limitazioni - il bisogno di rivolgerci
verso Dio in forma sempre più matura e con una costante conversione,
sempre più profonda.
Negli ultimi anni è stato fatto molto per mettere in evidenza - in conformità,
del resto, alla più antica tradizione della Chiesa - l'aspetto comunitario
della penitenza e, soprattutto, del sacramento della Penitenza nella pratica
della Chiesa. Queste iniziative sono utili e serviranno certamente ad arricchire
la prassi penitenziale della Chiesa contemporanea. Non possiamo, però,
dimenticare che la conversione è un atto interiore di una profondità
particolare, in cui l'uomo non può essere sostituito dagli altri, non
può farsi "rimpiazzare" dalla comunità. Benché
la comunità fraterna dei fedeli, partecipanti alla celebrazione penitenziale,
giovi grandemente all'atto della conversione personale, tuttavia, in definitiva,
è necessario che in questo atto si pronunci l'individuo stesso, con tutta
la profondità della sua coscienza, con tutto il senso della sua colpevolezza
e della sua fiducia in Dio, mettendosi davanti a Lui, come il Salmista, per
confessare: "Contro di te ho peccato"(175). La Chiesa, quindi, osservando
fedelmente la plurisecolare prassi del sacramento della Penitenza - la pratica
della confessione individuale, unita all'atto personale di dolore e al proposito
di correggersi e di soddisfare - difende il diritto particolare dell'anima umana.
E' il diritto ad un più personale incontro dell'uomo con Cristo crocifisso
che perdona, con Cristo che dice, per mezzo del ministro del sacramento della
Riconciliazione: "Ti sono rimessi i tuoi peccati"(176); "Va',
e d'ora in poi non peccare più"(177). Come è evidente, questo
è nello stesso tempo il diritto di Cristo stesso verso ogni uomo da lui
redento. E' il diritto ad incontrarsi con ciascuno di noi in quel momento-chiave
della vita dell'anima, che è quello della conversione e del perdono.
La Chiesa, custodendo il sacramento della Penitenza, afferma espressamente la
sua fede nel mistero della Redenzione, come realtà viva e vivificante,
che corrisponde alla verità interiore dell'uomo, corrisponde all'umana
colpevolezza ed anche ai desideri della coscienza umana. "Beati quelli
che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati"(178).
Il sacramento della Penitenza è il mezzo per saziare l'uomo con quella
giustizia, che proviene dallo stesso Redentore.
Nella Chiesa che, soprattutto nei nostri tempi, si raccoglie specialmente intorno
all'Eucaristia, e desidera che l'autentica comunità eucaristica diventi
segno dell'unità di tutti i cristiani, unità che sta gradualmente
maturando, deve essere vivo il bisogno della penitenza, sia nel suo aspetto
sacramentale(179), come anche in quello concernente la penitenza come virtù.
Questo secondo aspetto fu espresso da Paolo VI nella Costituzione Apostolica
Paenitemini(180). Uno dei compiti della Chiesa è di mettere in pratica
l'insegnamento in essa contenuto; si tratta di argomento che dovrà esser
di certo da noi approfondito ancora nella riflessione comune, e fatto oggetto
di molte ulteriori decisioni, in spirito di collegialità pastorale, rispettando
le diverse tradizioni a questo proposito e le diverse circostanze della vita
degli uomini del nostro tempo. Tuttavia, è certo che la Chiesa del nuovo
Avvento, la Chiesa che si prepara di continuo alla nuova venuta del Signore,
deve essere la Chiesa dell'Eucaristia e della Penitenza. Soltanto sotto questo
profilo spirituale della sua vitalità e della sua attività, essa
è la Chiesa della missione divina, la Chiesa in statu missionis, così
come ce ne ha rivelato il volto il Concilio Vaticano II.
21. Vocazione cristiana: servire e regnare
Il Concilio Vaticano II,
costruendo dalle stesse fondamenta l'immagine della Chiesa come Popolo di Dio
- mediante l'indicazione della triplice missione di Cristo stesso, partecipando
alla quale noi diventiamo veramente Popolo di Dio - ha messo in rilievo anche
questa caratteristica della vocazione cristiana, che si può definire
"regale". Per presentare tutta la ricchezza della dottrina conciliare,
bisognerebbe far qui riferimento a numerosi capitoli e paragrafi della Costituzione
Lumen Gentium ed ancora a molti altri documenti conciliari. In mezzo a tutta
questa ricchezza, un elemento sembra però emergere: la partecipazione
alla missione regale di Cristo, cioè il fatto di riscoprire in sé
e negli altri quella particolare dignità della nostra vocazione, che
si può definire "regalità". Questa dignità si
esprime nella disponibilità a servire, secondo l'esempio di Cristo, che
"non è venuto per essere servito, ma per servire"(181). Se
dunque alla luce di questo atteggiamento di Cristo si può veramente "regnare"
soltanto "servendo", in pari tempo il "servire" esige una
tale maturità spirituale che bisogna proprio definirlo un "regnare".
Per poter degnamente ed efficacemente servire gli altri, bisogna saper dominare
se stessi, bisogna possedere le virtù che rendono possibile questo dominio.
La nostra partecipazione alla missione regale di Cristo - proprio al suo "ufficio
regale" (munus) - è strettamente legata ad ogni sfera della morale,
cristiana ed insieme umana.
Il Concilio Vaticano II, presentando il quadro completo del Popolo di Dio, ricordando
quale posto abbiano in esso non soltanto i sacerdoti, ma anche i laici, non
soltanto i rappresentanti della Gerarchia, ma anche quelle e quelli degli Istituti
di vita consacrata, non ha dedotto questa immagine solo da una premessa sociologica.
La Chiesa, come società umana, può senz'altro essere anche esaminata
e definita secondo le categorie, di cui si servono le scienze nei confronti
di qualsiasi società umana. Ma queste categorie non sono sufficienti.
Per tutta la comunità del Popolo di Dio e per ciascuno dei suoi membri,
non si tratta soltanto di una specifica "appartenenza sociale", ma
piuttosto è essenziale, per ciascuno e per tutti, una particolare "vocazione".
La Chiesa, infatti, come Popolo di Dio - secondo l'insegnamento sopra citato
di San Paolo e ricordato in modo mirabile da Pio XII - è anche "Corpo
mistico di Cristo"(182). L'appartenenza ad esso deriva da una chiamata
particolare, unita all'azione salvifica della grazia. Se quindi vogliamo aver
presente questa comunità del Popolo di Dio, così vasta ed estremamente
differenziata, dobbiamo anzitutto vedere Cristo, che dice in un certo modo a
ciascun membro di questa comunità: "Seguimi"(183). Questa è
la comunità dei discepoli, ciascuno dei quali, in modo diverso, talvolta
molto cosciente e coerente, talvolta poco consapevole e molto incoerente, segue
Cristo. In questo si manifestano anche il profilo profondamente "personale"
e la dimensione di questa società, la quale - nonostante tutte le deficienze
della vita comunitaria, nel senso umano di questa parola - è una comunità
proprio per il fatto che tutti la costituiscono insieme con Cristo stesso, se
non altro perché portano nella loro anima il segno indelebile di chi
è cristiano.
Il medesimo Concilio ha usato un'attenzione del tutto particolare, per dimostrare
in quale modo questa comunità "ontologica" dei discepoli e
dei confessori debba diventare sempre più, anche "umanamente",
una comunità cosciente della propria vita ed attività. Le iniziative
del Concilio in questo campo hanno trovato la loro continuità nelle numerose
e ulteriori iniziative di carattere sinodale, apostolico e organizzativo. Dobbiamo,
però, tener sempre presente la verità che ogni iniziativa in tanto
serve al vero rinnovamento della Chiesa, e in tanto contribuisce ad apportare
l'autentica luce che è Cristo(184), in quanto si basa sull'adeguata consapevolezza
della vocazione e della responsabilità per questa grazia singolare, unica
e irripetibile, mediante la quale ogni cristiano nella comunità del Popolo
di Dio costruisce il Corpo di Cristo. Questo principio, che è la regola-chiave
di tutta la prassi cristiana - prassi apostolica e pastorale, prassi della vita
interiore e di quella sociale - deve essere applicato, in giusta proporzione,
a tutti gli uomini e a ciascuno di essi. Anche il Papa, come pure ogni Vescovo,
deve applicarlo a sé. A questo principio debbono essere fedeli i sacerdoti,
i religiosi e le religiose. In base ad esso debbono costruire la loro vita gli
sposi, i genitori, le donne e gli uomini di condizione e di professione diverse,
iniziando da coloro che occupano nella società le più alte cariche
e finendo con coloro che svolgono i lavori più semplici. Questo è
appunto il principio di quel "servizio regale", che impone a ciascuno
di noi, seguendo l'esempio di Cristo, il dovere di esigere da se stessi esattamente
quello a cui siamo chiamati, a cui - per rispondere alla vocazione - ci siamo
personalmente obbligati, con la grazia di Dio. Tale fedeltà alla vocazione
ottenuta da Dio, mediante Cristo, porta con sé quella solidale responsabilità
per la Chiesa, alla quale il Concilio Vaticano II vuole educare tutti i cristiani.
Nella Chiesa, infatti, come nella comunità del Popolo di Dio, guidata
dall'opera dello Spirito Santo, ciascuno ha "il proprio dono", come
insegna San Paolo(185). Questo "dono", pur essendo una personale vocazione
ed una forma di partecipazione all'opera salvifica della Chiesa, serve parimenti
agli altri, costruisce la Chiesa e le comunità fraterne nelle varie sfere
dell'esistenza umana sulla terra.
La fedeltà alla vocazione, cioè la perseverante disponibilità
al "servizio regale", ha un particolare significato per questa molteplice
costruzione, soprattutto per ciò che riguarda i còmpiti più
im pegnativi, che hanno maggiore influenza sulla vita del nostro prossimo e
di tutta la società. Per la fedeltà alla propria vocazione debbono
distinguersi gli sposi, come esige la natura indissolubile dell'istituzione
sacramentale del matrimonio. Per una simile fedeltà alla propria vocazione
debbono distinguersi i sacerdoti, atteso il carattere indelebile che il sacramento
dell'Ordine imprime nelle loro anime. Ricevendo questo sacramento, noi nella
Chiesa Latina c'impegniamo consapevolmente e liberamente a vivere nel celibato,
e perciò ognuno di noi deve far tutto il possibile, con la grazia di
Dio, per essere riconoscente per questo dono e fedele al vincolo accettato per
sempre. Ciò non diversamente dagli sposi, che debbono con tutte le loro
forze tendere a perseverare nell'unione matrimoniale, costruendo con questa
testimonianza d'amore la comunità familiare ed educando nuove generazioni
di uomini, capaci di consacrare anch'essi tutta la loro vita alla propria vocazione,
cioè a quel "servizio regale" di cui l'esempio e il più
bel modello ci sono offerti da Gesù Cristo. La sua Chiesa, che noi tutti
formiamo, è "per gli uomini" nel senso che, basandoci sull'esempio
di Cristo(186) e collaborando con la grazia che Egli ci ha guadagnato, possiamo
raggiungere quel "regnare", e cioè realizzare una matura umanità
in ciascuno di noi. Umanità matura significa pieno uso del dono della
libertà, che abbiamo ottenuto dal Creatore, nel momento in cui egli ha
chiamato all'esistenza l'uomo fatto a sua immagine e somiglianza. Questo dono
trova la sua piena realizzazione nella donazione, senza riserve, di tutta la
propria persona umana, in spirito di amore sponsale al Cristo e, con Cristo,
a tutti coloro, ai quali Egli invia uomini o donne, che a Lui sono totalmente
consacrati secondo i consigli evangelici. Ecco l'ideale della vita religiosa,
assunto dagli Ordini e Congregazioni, sia antichi che recenti, e dagli Istituti
secolari.
Ai nostri tempi, si ritiene talvolta, erroneamente, che la libertà sia
fine a se stessa, che ogni uomo sia libero quando ne usa come vuole, che a questo
sia necessario tendere nella vita degli individui e delle società. La
libertà, invece, è un grande dono soltanto quando sappiamo consapevolmente
usarla per tutto ciò che è il vero bene. Cristo c'insegna che
il migliore uso della libertà è la carità, che si realizza
nel dono e nel servizio. Per tale "libertà Cristo ci ha liberati"(187)
e ci libera sempre. La Chiesa attinge qui l'incessante ispirazione, l'invito
e l'impulso alla sua missione ed al suo servizio fra tutti gli uomini. La piena
verità sulla libertà umana è profondamente incisa nel mistero
della Redenzione. La Chiesa serve veramente l'umanità, quando tutela
questa verità con instancabile attenzione, con amore fervente, con impegno
maturo, e quando, in tutta la propria comunità, mediante la fedeltà
alla vocazione di ciascun cristiano, la trasmette e la concretizza nella vita
umana. In questo modo viene confermato ciò a cui abbiam fatto riferimento
già in precedenza, e cioè che l'uomo è e diventa sempre
la "via" della vita quotidiana della Chiesa.
22. La Madre della nostra fiducia
Quando dunque all'inizio
del nuovo pontificato rivolgo al Redentore dell'uomo il mio pensiero e il mio
cuore, desidero in questo modo entrare e penetrare nel ritmo più profondo
della vita della Chiesa. Se, infatti, la Chiesa vive la sua propria vita, ciò
avviene perché la attinge da Cristo, il quale vuole sempre una cosa sola,
cioè che abbiamo la vita e l'abbiamo in abbondanza(188).
Questa pienezza di vita, che è in Lui, è contemporaneamente per
l'uomo. Perciò, la Chiesa, unendosi a tutta la ricchezza del mistero
della Redenzione, diventa Chiesa degli uomini viventi, viventi perché
vivificati dall'interno per opera dello "Spirito di verità"(189),
perché visitati dall'amore che lo Spirito Santo infonde nei nostri cuori(190).
Lo scopo di qualsiasi servizio nella Chiesa, sia esso apostolico, pastorale,
sacerdotale, episcopale, è di mantenere questo legame dinamico del mistero
della Redenzione con ogni uomo.
Se siamo coscienti di questo còmpito, allora ci sembra di comprender
meglio che cosa significhi dire che la Chiesa è madre(191), ed ancora
che cosa significhi che la Chiesa sempre e, particolarmente, nei nostri tempi
ha bisogno di una Madre. Dobbiamo una speciale gratitudine ai Padri del Concilio
Vaticano II, che hanno espresso questa verità nella Costituzione Lumen
Gentium con la ricca dottrina mariologica in essa contenut(192). Poiché
Paolo VI, ispirato da questa dottrina, ha proclamato la Madre di Cristo "Madre
della Chiesa"(193), e tale denominazione ha trovato una vasta risonanza,
sia lecito anche al suo indegno Successore di rivolgersi a Maria, come Madre
della Chiesa, alla fine delle presenti considerazioni, che era opportuno svolgere
all'inizio del servizio pontificale. Maria è Madre della Chiesa, perché,
in virtù dell'ineffabile elezione dello stesso eterno Padre(194) e sotto
la particolare azione dello Spirito d'amore(195), Ella ha dato la vita umana
al Figlio di Dio, "per il quale e dal quale son tutte le cose"(196)
e da cui tutto il Popolo di Dio assume la grazia e la dignità dell'elezione.
Il suo proprio Figlio volle esplicitamente estendere la maternità di
sua Madre - ed estenderla in modo facilmente accessibile a tutte le anime e
i cuori - additandoLe dall'alto della croce il suo discepolo prediletto come
figlio(197). Lo Spirito Santo Le suggerì di rimanere anche Lei, dopo
l'Ascensione di nostro Signore, nel Cenacolo raccolta nella preghiera e nell'attesa,
insieme con gli Apostoli fino al giorno della Pentecoste, in cui doveva visibilmente
nascere la Chiesa, uscendo dall'oscurità(198). E in seguito tutte le
generazioni dei discepoli e di quanti confessano ed amano Cristo - così
come l'apostolo Giovanni - accolsero spiritualmente nella loro casa(199) questa
Madre, la quale in tal modo, sin dagli inizi stessi, cioè dal momento
dell'Annunciazione, è stata inserita nella storia della salvezza e nella
missione della Chiesa. Noi tutti quindi, che formiamo la generazione odierna
dei discepoli di Cristo, desideriamo unirci a Lei in modo particolare. Lo facciamo
con tutto l'attaccamento alla tradizione antica e, in pari tempo, con pieno
rispetto e amore per i membri di tutte le Comunità cristiane.
Lo facciamo spinti dalla profonda necessità della fede, della speranza
e della carità. Se, infatti, in questa difficile e responsabile fase
della storia della Chiesa e dell'umanità avvertiamo uno speciale bisogno
di rivolgerci a Cristo, che è Signore della sua Chiesa e Signore della
storia dell'uomo in forza del mistero della Redenzione, noi crediamo che nessun
altro sappia introdurci come Maria nella dimensione divina e umana di questo
mistero. Nessuno come Maria è stato introdotto in esso da Dio stesso.
In questo consiste l'eccezionale carattere della grazia della maternità
divina. Non soltanto unica e irripetibile è la dignità di questa
maternità nella storia del genere umano, ma unica anche per profondità
e raggio d'azione è la partecipazione di Maria, in ragione della medesima
maternità, al divino disegno della salvezza dell'uomo, attraverso il
mistero della Redenzione.
Questo mistero si è formato, possiamo dire, sotto il cuore della Vergine
di Nazareth, quando ha pronunciato il suo "fiat". Da quel momento
questo cuore verginale e insieme materno, sotto la particolare azione dello
Spirito Santo, segue sempre l'opera del suo Figlio e va verso tutti coloro,
che Cristo ha abbracciato e abbraccia continuamente nel suo inesauribile amore.
E, perciò, questo cuore deve essere anche maternamente inesauribile.
La caratteristica di questo amore materno, che la Madre di Dio immette nel mistero
della Redenzione e nella vita della Chiesa, trova la sua espressione nella sua
singolare vicinanza all'uomo ed a tutte le sue vicende. In questo consiste il
mistero della Madre. La Chiesa, che La guarda con amore e speranza tutta particolare,
desidera appropriarsi di questo mistero in maniera sempre più profonda.
In ciò, infatti, la Chiesa riconosce anche la via della sua vita quotidiana,
che è ogni uomo.
L'eterno amore del Padre, manifestatosi nella storia dell'umanità attraverso
il Figlio che il Padre diede "perché chiunque crede in lui non muoia,
ma abbia la vita eterna"(200), un tale amore si avvicina ad ognuno di noi
per mezzo di questa Madre ed acquista in tal modo segni più comprensibili
ed accessibili a ciascun uomo. Di conseguenza, Maria deve trovarsi su tutte
le vie della vita quotidiana della Chiesa. Mediante la sua materna presenza,
la Chiesa prende certezza che vive veramente la vita del suo Maestro e Signore,
che vive il mistero della Redenzione in tutta la sua vivificante profondità
e pienezza. Parimenti la stessa Chiesa, che ha le sue radici in numerosi e svariati
campi della vita di tutta l'umanità contemporanea, acquista anche la
certezza e, si direbbe, l'esperienza di essere vicina all'uomo, ad ogni uomo,
di essere la "sua" Chiesa: Chiesa del Popolo di Dio.
Di fronte a tali còmpiti, che sorgono lungo le vie della Chiesa, lungo
quelle vie, che il Papa Paolo VI ci ha chiaramente indicato nella prima Enciclica
del suo Pontificato, noi, consapevoli dell'assoluta necessità di tutte
queste vie e, nello stesso tempo, delle difficoltà che su esse si accumulano,
tanto più sentiamo il bisogno di un profondo legame con Cristo. Risuonano
in noi, come un'eco sonora, le parole che Egli disse: "Senza di me non
potete far nulla"(201). Non solo sentiamo il bisogno, ma addirittura l'imperativo
categorico per una grande, intensa, crescente preghiera di tutta la Chiesa.
Solamente la preghiera può far sì che tutti questi grandi còmpiti
e difficoltà che si susseguono non diventino fonte di crisi, ma occasione
e quasi fondamento di conquiste sempre più mature sul cammino del Popolo
di Dio verso la Terra Promessa, in questa tappa della storia che ci sta avvicinando
alla fine del secondo Millennio. Pertanto, terminando questa meditazione con
un caloroso ed umile invito alla preghiera, desidero che si perseveri in questa
preghiera uniti con Maria, Madre di Gesù(202), così come perseveravano
gli Apostoli e i discepoli del Signore, dopo la sua Ascensione, nel Cenacolo
di Gerusalemme(203). Supplico soprattutto Maria, la celeste Madre della Chiesa,
affinché si degni in questa preghiera del nuovo Avvento dell'umanità
di perseverare con noi, che formiamo la Chiesa, cioè il Corpo mistico
del suo Figlio unigenito. Io spero che, grazie a tale preghiera, potremo ricevere
lo Spirito Santo che scende su di noi(204) e divenire in questo modo testimoni
di Cristo "fino agli estremi confini della terra"(205), come coloro
che uscirono dal Cenacolo di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste.
Con la mia Benedizione Apostolica.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 marzo, prima domenica di Quaresima, dell'anno 1979, primo di Pontificato.
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